Il fantasma dell'Opera
Quando si traduce in film un'opera artistica, o qualsiasi oggetto culturale creato per un'interfaccia o una fruizione
che non contemplano (almeno non in prima battuta) lo schermo cinematografico, ci sono sempre delle regole da rispettare
nell'operazione di transcodifica. Cambiano linguaggi e convenzioni stilistiche, in funzione dei quali il materiale va
riadattato.
Con quest'ultimo Il fantasma dell'Opera torna al cinema la celeberrima storia nata dalla fantasia di Gaston Leroux,
pubblicata nel 1911, nella versione musicale creata da Andrew Lloyd Webber. Di nuovo (come già era accaduto due anni fa con
Chicago di Rob Marshall) un musical sfrutta le potenzialità della resa filmica per amplificare la propria portata
spettacolare. E il regista Joel Schumacher, sotto questo aspetto, dimostra di aver imparato una lezione in voga da tempo.
Partendo dall'idea di uno show sullo schermo che non spezzi in modo brusco la continuità narrativa (restando
fedeli al musical originale) nel tentativo di amalgamare parte recitata e intermezzi cantati, il film adotta una serie di
accorgimenti che ben ricreano l'atmosfera di una Parigi a cavallo fra due secoli, in cui si isola per imporsi il fasto del
consumato mestiere nell'Opera Populaire. Il suo soprano-primadonna, Carlotta (Minnie Driver), è una campana tutta capricci.
Di fronte all'intettitudine dei nuovi proprietari, il fantasma che da anni abita il teatro (Gerald Butler) caldeggia prima
e impone poi, attraverso eleganti missive, il lancio come soprano della ballerina Christine (Emmy Rossum), che lo crede
l'angelo della musica inviato dal padre defunto per addestrarla nell'arte del canto. Ma la passione del fantasma per la
sua musa non é di natura solo artistica: di fronte all'audace e serrata corte del giovane finanziatore Raoul (Patrick
Wilson), la gelosia arriverà a roderlo con conseguenze irreversibili. E Christine si troverà a dover scegliere fra l'amore
per Raoul e quello per il suo angelo.
La compiaciuta componente nostalgica, in un lavoro che fa risorgere i fasti di un'altra epoca sulla base di una
storia che sia il cinema che il teatro hanno già conosciuto, si estrinseca nella scelta di stile con cui Schumacher ha
impostato la cesura temporale che separa gli eventi narrati da una cornice, che mostra la ballet mistress Madame Giry
(Miranda Richardson) ormai anziana mentre assiste all'asta che vende i cimeli del teatro in piena rovina. Curiosamente, le
sequenze temporalmente più vicine sono presentate in uno sgranato bianco e nero che ribatte la sensazione di una pellicola antica dalla grana rovinata. Mentre il salto indietro nel tempo, per il racconto della vicenda vera e propria, é segnato dal
passaggio a uno smagliante colore, finendo per ribaltare in questo modo i tradizionali canoni della percezione visiva che
supporta quella cronologica.
Ed é tutto un susseguirsi di mirabolanti trovate ed effetti così classici da diventare sovraccarichi
che caratterizza il progredire di una storia molto meno ingenua rispetto alle molteplici versioni che l'hanno preceduta,
che marca l'elemento sensuale per stringere i nodi del filo del racconto, rifiutando l'inutile, ma in una sovrabbondanza
(soprattutto visiva) a tratti stordente.
Una connotazione, questa, che s'adagia parecchio sulle scelte di casting, che ben hanno portato l'assai bravo Gerald
Butler a vestire i panni del protagonista maschile, altero e tormentato nello sguardo che trapassa la maschera bianca che
copre una -piccola- parte del viso. A cui si affianca una palpitante ma affettata Emmy Rossum, voluta per la giovane età
(aveva alle spalle praticamente solo Mystic River di Clint Eastwood) e scelta dopo una ricerca che si vuole estenuante.
L'alchimia che dovrebbe crearsi fra Christine e i suoi due pretendenti fa però poche scintille nei duetti, faticando a
trasudare dalla posa contemplativa e non sempre spontanea della pur volenterosa interprete; tant'é che ad accrescere lo
spessore recitativo generale pensano, oltre a Butler, l'ancora una volta ottima Miranda Richardson e l'abile Patrick Wilson. Per tutti, una prova di canto e recitazione in piena usanza musical, purtroppo impossibile da apprezzare a pieno titolo in
Italia per via del (pur ben eseguito) doppiaggio che, per ragioni squisitamente commerciali, è stato scelto dalla stessa
produzione anche per le canzoni.
Resta sempre di alto livello la tensione che pervade il risultato finale, vibrante e ben montato da Terry Rawlings,
accorto anche nel restituire un velato retrogusto debitore della tradizione horror in un paio di sequenze; la cui eleganza
é sempre sfrontatamente esibita con orgoglio, anche grazie all'ottimo lavoro della costumista Alexandra Byrne (Elizabeth,
Hamlet).
Il problema centrale, che Joel Schumacher s'é preoccupato di risolvere solo in parte, resta sempre quello già citato
relativo all'adattamento per il cinema di un musical, alla trasformazione di un prodotto culturale e mediale in qualcosa di
nuovo sotto il profilo della fruizione. Nell'obiettivo di usare il linguaggio cinematografico per esaltare le qualità di un
simile show musicale, il regista non ha contemplato l'attenzione per l'elemento cinematografico stesso, che stenta a
svincolarsi dalla logica teatrale e dai limiti che essa impone; ha esaltato sì la discontinuità fra inquadrature che il
montaggio temporale rende possibile (facendo del film un generatore d'illusione che ha superato il teatro), ma non ha
curato l'elasticità delle sequenze che, nella loro rigida divisione, restano incredibilmente prolisse e qua e là
statiche, poco morbide nella vicinanza a quella rappresentazione pre-filmica dell'intrattenimento in tempo reale.
Alessandro Bizzotto
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