Pornografia (Pornography)
L'allegoria e la metafora attraversano Pornografia in modo silenzioso ma (volutamente?)
visibile. Con uno stile narrativo quasi distaccato, il regista polacco Jan Jacob Kolski mette in
scena una storia di allucinato rimpianto e fredda determinazione.
Ad essere pornografica è la risoluta consapevolezza con cui Witold, il protagonista
sentimentalmente annoiato e di mezz'età, vuole spingere fra le braccia di un giovane servo la
figlia del proprietario terriero da cui è in visita, mandando a monte il fidanzamento di quella
con un vanesio rampollo. Giocare con l'amore e i sentimenti coinvolge lui e il suo amico
Frederick in un gioco via via sempre più serrato, ma l'ombra di ciò che è passato e perso è una
ferita sempre aperta: il piano sfuggirà di mano senza che nessuno se ne accorga, dalla passione
si passerà al sangue, e il tutto inevitabilmente sfocerà in tragedia.
La Polonia del 1943, stretta nella morsa dell'occupazione nazista, è sfondo cupo e ben
abbinato a una storia così silenziosamente densa. Ma per buona parte
del film resta sempre lontana, separata dalla vicenda da una cesura d'origine sintattica. Veloci
steadycam della mdp attraversano le foreste in cui infuriano le razzie tedesche ammutolendo
il sonoro, smorzando le luci, ruotando in una gelida esibizione impersonale - quasi
pornografica - degli orrori della guerra.
All'interno della tenuta, invece, il tempo non sembra contare. I ritmi sono lenti, non solo
quelli della storia (le giornate trascorse oziando fra pranzi e camminate negli orti), ma anche
quelli del racconto; i dialoghi si protraggono e si susseguono senza un preciso ordine logico, e
diverse sequenze si trasformano in semplici spaccati di vita agreste.
Solo nel finale il contesto storico s'intreccia alla vicenda, quando una presenza scomoda
nella tenuta (un partigiano polacco impazzito) dovrà essere eliminata per evitare la minaccia
della punizione tedesca. Un omicidio che Witold suggerisce di far compiere ai due ragazzi che
vuole unire - a lui il compito di uccidere, a lei quello di fare da esca - perchè la complicità e
la tensione siano seguiti dalla passione, in un processo da istinto a istinto.
Sono le inquadrature fisse sui visi dei protagonisti (ripresi in modo così ossessivo da essere
giocoforza espressivi) a rendere palpabile la tensione che li attraversa; gli spazi si stringono
loro attorno in modo claustrofobico, come se imprigionassero i corpi strozzandone l'ossessione
erotica; l'indolenza della vita borghese ne appesantisce sia l'azione che il pensiero.
Eppure questa esasperata fisicità si trova in una frustrante situazione di impotenza nella
messa in scena: il desiderio prende forma in modo troppo convenzionale, con i corpi pallidi dei
due giovani che si sfiorano e si toccano, e Pornografia vacilla spesso sotto il peso di una
componente visiva quasi ridondante.
Tutto il film è impeccabile dal punto di vista estetico, questo sì. La fotografia fa sembrare
la pellicola addirittura ricolorata, anche se i toni sono vividi nel loro languore; i paesaggi
polacchi sono sempre di una bellezza vistosa, sia nei tramonti infuocati a imitare la
pittura fiamminga che nelle fredde tinte dei notturni.
Ma la metafora è esibita fino all'eccesso, priva di una chiara funzione, e finisce per essere
pedante. Lampade in cui si agitano falene imprigionate sono accostate alla mente invasa dalle
idee; labbra, occhi, orecchie si susseguono in primissimi piani come se le potenzialità dei sensi
si ampliassero; il bianco e nero della sequenza finale è attraversato dal verde smeraldo
del pezzo di vetro che è il solo oggetto davvero significativo della storia. Non c'è amore, in
Pornografia, per le armi, per gli attrezzi agricoli, per il cibo che ora serve a saziare, ora è
strumento di seduzione - come i frutti di bosco che si scambiano la ragazzina e il bracciante in
un gioco pretestuosamente scenografico, che nelle intenzioni di Witold deve trasformarsi in
erotico. E' l'azione dell'automatico riprenderli, ripetitiva e per questo raffreddata, che
alla fine diventa pornografia, il metterli in scena senza guardarli davvero, in esibizione, a
sostituire l'eros che invece non viene mai mostrato, cui ci si limita ad alludere. Perché
l'attenzione è tutta rivolta alla mente che escogita, all'anima che soffre.
La teatralità, però, si trasforma facilmente in rigidità e gioca contro le idee del regista,
rendendo ordinario un racconto che pure è tanto palesemente curato. Alessandro Bizzotto
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