Foto © Ottavia Da Re
24 ore in un set cinematografico
Così potremmo definirle, parafrasando il piccolo, prezioso, libricino di Mario Soldati che ha accompagnato le nostre incursioni sul set de "Il mercante di Venezia".
Ore impazienti, in attesa spasmodica di un Action! che non sembrava mai arrivare, ore preziose, passate a guardare l’incanto del genio che si manifesta e diventa, in un ciak, interpretazione, ore infreddolite a raccogliere la passione che macina dietro ai trabanelli e che riesce a scaldare gli animi di chi il cinema lo vive, lo divora, lo fa.
Un viaggio nel backstage, un excursus tra i possibili, immaginari, extra di un futuro dvd, un making of da extended edition ma, soprattutto, un itinerario personale, l’impressione viva, disordinata, tumultuosa di un set cinematografico, di attimi vissuti ‘sul filo del fuoricampo’, all’ombra del Mercante e alla luce del cinema.
Shoot day n. 25
Lunedì 5 gennaio 2004. Primo giorno di riprese a Venezia, non quella posticcia lussemburghese che ha visto la troupe impegnata per tre settimane fra bricole e canali ricostruiti ad hoc in studio. Solo una settimana per dare all’artificio quella veridicità che nessuna ricostruzione, per quanto fedele, può sostituire. La magia di una città, sospesa nell’acqua e nel tempo.
Solo una settimana. Per girare poche ma fondamentali sequenze che valgono il film, la sua credibilità, la sua autenticità. Non ci sono studi, teatri di posa, camerini accoglienti ad ospitare attori e comparse.
Questa volta si fa sul serio. Il freddo è tutto vero, l’umidità proverbiale, e il moto ondoso non risparmia motoscafi e barconi carichi di attrezzature. I primi ciak servono a scaldare i motori e a far crescere una concentrazione che nei prossimi giorni raggiungerà i massimi livelli.
La giornata è iniziata prestissimo a Palazzo Polignac, dove è stato ricostruito il Palazzo di Bassanio che ha visto in scena al prima star di queste riprese: Joseph Fiennes. Interni off limits, quindi ci accontentiamo di poter sbirciare gli esterni che si gireranno nel pomeriggio.
Il set vicino a Rialto è un brulicare di elettricisti, scenografi, attrezzisti. Un formicaio di tecnici che ha preso il posto del mercato che normalmente caratterizza l’Erberia, bandito con i suoi banchi per qualche giorno per lasciare spazio al film.
I magazzini sullo sfondo si stanno lentamente trasformando ad opera dello scenografo e dei suoi collaboratori che nel loro piccolo magazzino di colori, barattoli e pennelli ricreato sotto il portico hanno invecchiato portoni, arcate, colonne. Qualcuno si arrampica per camuffare con reti da pesca gli aghi anti-piccioni, per la gioia dei volatili che per qualche giorno potranno appollaiarsi sotto il porticato in santa pace e godersi, comparse involontarie, qualche sequenza da star...
Ci incantiamo a guardare il lavoro di chiunque, immersi nell’ingranaggio appena avviato della grande “fabbrica”, come la chiamava un infaticabile 'animale da set' chiamato Steve McQueen, ma come soprattutto nel Rinascimento veniva definita l’edificazione di grandi opere architettoniche, fino a perderci e a non capire per quale motivo, pur essendo nel bel mezzo del set, non ci sia traccia di mdp, regista e cast.
Per fortuna qualche metro più in là qualcuno grida “Action!” strappandoci dal dubbio e dal pensiero quasi certo, di aver sbagliato location…
Di fronte a noi una gondola nera con alcune comparse fa spola da una parte all’altra del Canal Grande, che finalmente ci indirizza verso l’occhio della mdp, collocata su un altissimo trabanello incastrato sotto il portico adiacente la Pescheria. Gli “Action!” si alternano più volte agli “Stooop!” per la gioia del gondoliere che comincia a sentire la stanchezza di quell’andirivieni di pochi pesantissimi metri fino a quando l’aiuto regista è soddisfatto e la gondola può accostare e far scendere i suoi infreddoliti occupanti. Pausa pranzo. Cominciamo a perdere la cognizione del tempo, chiaro segnale del fatto che ci troviamo su un set cinematografico, e le campane di mezzogiorno sono un echeggiare ormai lontano diverse ore, quando si sente urlare con sollievo e soddisfazione “Pausa pranzo! Un ora per gli attori, mezz’ora per le comparse”.
Gerarchie, regole, la società del cinema.
Il set viene abbandonato da comparse e operatori ma non da operai, scenografi e attrezzisti che continuano a lavorare per le scene successive preparando impalcature, sistemando fari e fonti luminose seguendo direttive e indicazioni della sceneggiatura. Il set si rianima. La produzione si concede ai giornalisti e ai lati della scena si formano angoli per interviste preparate e dichiarazioni a caldo. Sarà la presenza della bella Edwige Fenech, produttrice con Immagine Film (assieme a Istituto Luce e Dania Film per la parte italiana), che tenta invano per difendersi dai flash o dal freddo di nascondersi sotto un fazzolettone nero, ma la stampa si precipita in massa e Rosanna Roditi della CRG International, società che si occupa della logistica delle riprese non si risparmia, rivolgendosi a tutti con la consueta disponibilità.
C’è attenzione, si percepisce l’interesse nei confronti di un film che si preannuncia evento.
Il gracchiare delle ricetrasmittenti della troupe indica che siamo nel momento più concitato della giornata, nel caos più totale e nei lunghissimi tempi di preparazione e che precede l’ordine e la composta perfezione che arriverà improvvisamente e miracolosamente l’attimo dopo il ciak.
C’è tempo anche per un’inusuale protesta contro l’impiego di maestranze straniere e, non appena la troupe inizia a girare con alcune carrellate sulle comparse, un fumogeno giallo attraversa la scena rovinando la sequenza e l’architettura luminosa del direttore della fotografia Benoit Delhomme, che assieme agli operatori assiste impotente e sconsolato. E’ un attimo. Con l’intervento della produzione tutto torna sotto controllo e finalmente la scena può essere ricomposta.
Passa mezz’ora e vediamo arrivare fieri e orgogliosi un gruppo di mercanti avvolti nei loro tabarri. Il primo scatto della giornata i fotografi lo riservano a loro, che saranno i protagonisti assoluti di questo primo shoot day. Al Pacino deve ancora arrivare e il resto del cast si sta preparando con lunghe sedute di ripasso e concentrazione per le riprese di domani quindi via libera a piccole grandi performances di figuranti e comparse che avranno tutta per loro l’attenzione del regista.
Michael Radford non si fa attendere, disponibile, sempre sorridente, ma concentrato e attento ad ogni piccolo movimento della sua grande e numerosa squadra. E’ un mister di esperienza e qui in Italia, dopo le riprese de Il postino si sente a casa sua, così si rivolge alle comparse in un amabile italiano impartendo istruzioni con chiarezza e molta pazienza, gesticolando lentamente per far capire a tutti come anche la scena più insignificante fatta da poche sparute ed emozionate comparse può fare la differenza e valorizzare il lavoro di tutti, Al Pacino compreso. Gioco di squadra, di un director che sa mettere in campo i suoi uomini anche senza i fuoriclasse, che giocheranno domani, regalando perle e virtuosismi, suggellando il film, per una vittoria che è iniziata qui, su un set ancora incompleto, con scorci ancora da definire, grazie al lavoro di comparse intirizzite e intimorite ma pronte a dare l’anima, ascoltando senza perdersi un gesto, una parola, il loro mister, il loro regista.
Una corsa a sbirciare sul quadernone ad anelli con la sceneggiatura del film e anche questa scena è pronta. “Action!”, grida Radford e, sotto il portico, piccoli grandi interpreti fanno il loro dovere diventando mercanti del ‘500 intenti a contrattare, borsello alla mano, pregiate mercanzie.
Dopo lo stop scaturisce un liberatorio “bravi!” e il freddo di colpo se ne va, gli occhi si illuminano e i cuori si riscaldano di soddisfazione e orgoglio. Ma è il momento di gloria passa in fretta, non c’è tempo per l’autostima. Si ricomincia. “Ancora una volta, please”, e la squadra è di nuovo in campo per dare tutto, nonostante il gelo portato dalla sera, nonostante la stanchezza.
Vita da comparse.
Domani mattina convocazione all’alba per la carica dei 150. Stessa energia, stesso entusiasmo. E sarà ancora un generic day, chissà se si può dire, un giorno come tanti, un giorno da comparsa.
Shoot Day n. 26
Martedì 6 gennaio 2004. E’ il giorno dell’Epifania. Breakfast from 4.30, recita il programma della giornata, mentre è fissata per le 5:00 il make-up & hair call.
Strabuzziamo gli occhi, ma ci sono 150 comparse da vestire, truccare, pettinare per riuscire a rispettare la chiamata sul set delle 8.00 e capiamo che anche così sarà una bella impresa per truccatori, parrucchieri e casting. Quando arriviamo nei pressi delle location, Venezia non si è ancora svegliata e lo farà lentamente, mentre ci avviciniamo a Rialto. Giunti in prossimità del Ponte ancora assonnati ci ritroviamo di colpo immersi nella bolgia e in afflati alcolici di vin brulè che di prima mattina diventano un attentato alla nostra lucidità e rendono ancor più arduo il cammino verso il set. Solo il freddo pungente ci permette di attraversare quella bolgia di bevute e ombre rimanendo sobri ed eretti. A ridosso della scena, svelato il mistero: da una parte del ponte, il Mercante di Venezia, dall’altra, la tradizionale e molto caratteristica regata delle Befane, in cui gondolieri dal sangue freddo, secondo tradizione, si sfidano a colpi di remi vestiti da vecchiacce, muscolose e nerborute...
Sembra di stare sul fronte: il ponte di Rialto divide due folle schierate che cercando di ignorarsi, salvo lanciarsi occhiate eloquenti. In mezzo gruppetti di turisti avanzano curiosi guardando ora da un lato ora dall’altro, senza riuscire a decidere quale dei due spettacoli trovare più interessante, ugualmente sbalorditi.
Sarà il leit-motiv della giornata, per la gioia di security e produzione impegnate allo spasimo ad arginare incursioni di curiosi da ogni lato, lottando tutto il giorno in trincea per avanzare e cercare di guadagnare, masegno dopo masegno, qualche metro di quell’ultimo ponte e permettere alla truppa, ovvero alla numerosa troupe, lo spazio minimo necessario per muoversi e lavorare.
Da parte nostra diamo un piccolo contributo depistando con facili menzogne e spudorate storie di banali e fantomatiche riprese televisive (no film, no movie, no Al Pacino, only spot…), comitive di turisti di ogni nazionalità e liberando qualche varco sulla scena del film…
La giornata è campale e la mattina è dedicata ai preparativi di quella che sarà la scena più difficile e spettacolare dell’intero film: dal Ponte di Rialto due stuntman verranno lanciati in acqua dopo una zuffa fra comparse.
Ci dobbiamo piazzare. Il ponte viene incelofanato dai nastri della produzione e non ci sarà posto per osservare la scena. Con noi, sciami di fotografi e giornalisti partono a caccia di una postazione, di un posto di vedetta, di una calle nascosta, di un parapetto strategico da cui poter scattare, vedere, ammirare la sequenza, portare a casa un reportage e guadagnarsi una giornata di paga extra.
C’è un clima da diretta. Edwige Fenech è in prima linea per la promozione del film e viene ricercata più di Jeremy Irons. Ai piedi del Ponte, in attesa dell’inizio delle riprese, inizia a concedere qualche intervista.
Il grande occhio della tv è puntato sul set e questo basta per far scattare tv, tg, cronisti più o meno d’assalto, più o meno improvvisati come noi, a far mobilitare i vertici della produzione, dall’Istituto Luce a Dania Film.
Ci ritroviamo in un pontile di fronte all’Erberia, mentre i più agguerriti hanno trovato ospitalità in qualche balcone amico, scroccando una postazione sicuramente migliore della nostra.
Passano le ore. Sono solo 11, ma il sole sembra non voler uscire e il freddo ci attanaglia le gambe. Sul Ponte di Rialto le comparse si affollano, mentre tra la sorpresa dei presenti due insoliti protagonisti fanno il loro ingresso trionfale in una gabbietta all confort, scortati dai padroni e dal parrucchiere che corre subito a riavviare ricci e chioma lucente. Un barboncino e un panciuto carlino disorientati ma felici iniziano a trotterellare sul ponte coccolati da tutti. Due animali da palcoscenico, non c’è che dire…
Qualche metro più sotto una gondola che ospita un frate francescano con in mano una spessa croce di legno continua ad attraversare il canale posizionandosi al centro della scena. Ma sono sempre e solo prove. I vaporetti continuano ad attraversare indisturbati e i vigili aspettano - ordini dall’alto -. Il pontile su cui ci troviamo appollaiati come i tanti colombi intirizziti della città, si sta trasformando in una specie di pak, mentre qualche temerario decide di accompagnare la nostra ormai rassegnata attesa.
Il traffico comincia ad essere interrotto con brevi pause di pochi minuti, e mentre la police boat si piazza in canale, il vigile di turno si spolmona fischiando a vaporetti e gondole.
Arrivano anche i sommozzatori e questo ci sembra un buon segno, ma sappiamo che dovremo aspettare ancora un bel po’ prima di sentire il tanto sospirato Action!.
Nel frattempo, un motoscafo scarica sul nostro pontile un’intera squadra di cronisti che immaginavamo comodamente posizionati nella tribuna d’onore di qualche balcone signorile. Invece eccoli tutti qui, Tg 5, Rai (1, 2?), Tg Regionale, sguardo rabbuiato, mentre il vigile li fa scendere con tutti i venti quintali di attrezzature che si portano dietro, sul nostro desolato e ormai granitico pak. E mentre sinistri scricchiolii, suggeriscono alla nostra mente una domanda (“reggerà?”), il vigile inizia a sbracciarsi e all’orizzonte, iniziano a manifestarsi strani movimenti. Sarà l’ennesimo falso allarme, causato stavolta da un gondoliere distratto che traghetta il solito carico di giapponesi invadendo il campo, nonostante le urla e i fischi che piovono d’ogni dove sul Canale.
L’assideramento ha raggiunto livelli di insensibilità e il nostro pensiero va alle povere comparse svestite sul ponte, che a quell’altezza per chi lo deve scalare deve sembrare la Cima Coppi e ai due poveri stunt che nessuna muta isolante potrà preservare dalle gelide acque sottostanti.
Ma ormai manca poco. Il silenzio si fa religioso, solo le onde continuano a rumoreggiare nel loro ritmo costante. E’ una sensazione paradossale. Ogni finestra dei palazzi che si affacciano su Rialto ha occhi sul Canale. Perfino Al Pacino, arrivato in mattinata all’aeroporto Marco Polo (come ci rivela un fotografo che lo ha seguito fin qui), Joseph Fiennes e Jeremy Irons scrutano la scena dal balcone dell’Hotel Ponte Antico, prospiciente il set.
Da dove ci troviamo sembra di guardare un telero del Carpaccio, di avere di fronte le immagini de Il Miracolo della reliquia della Croce, (già richiamato da Duccio Tessari nel 1963 con Il fornaretto di Venezia) che raccontano come nel 1494 proprio sotto il Ponte di Rialto (all’epoca ancora ligneo) le gondole guidate dai mori attraversavano il canale con il carco di nobili accompagnati dagli inseparabili barboncini, mentre i monaci sul ponte e tutta Venezia, con i suoi comignoli e i suoi palazzi, giungevano in processione per assistere all’avvenimento.
L’immagine è speculare così come l’attesa per un evento che per l’enfasi, il freddo e la sensazione di essere parte di uno sforzo collettivo, tutti aspettano proprio come un miracolo.
Ma i nostri sogni ad occhi aperti e tutti i nobili propositi di farci scaldare dalla passione per l’arte, ci abbandonano all’istante, e ci ritroviamo catapultati nella realtà del 6 gennaio 2004, confinati nel nostro angolo di laguna, sotto una bricola camuffata ad hoc dagli assistenti scenografi per nascondere il blu e l’oro della vernice contemporanea mentre un vigile in motoscafo pattuglia il canale, al grido “Ordini del regista: no vol vedar fora gnanca ‘na testa”…
Rintanati e perentoriamente zittiti ricominciamo ad aspettare. In cima al Ponte viene posizionata una pedana che permetterà all’operatore di riprendere la caduta dall’alto e per mettere a norma (secondo gli ormai noti dettami della 626) la struttura e permettere un buon livello di sicurezza. Lassù si discute, qualcuno mercanteggia, tutti attendono.
Ma si muove qualcosa. Le cortigiane mezze svestite, tentano di difendere la propria “posizione” dalla concorrenza di aitanti travestiti, esponendo la propria mercanzia su quello che la mdp ritrarrà come “il ponte delle tette”. Di corsa comparse e stunt salgono rapidissimi i gradini di Rialto e inizia una zuffa concitata e un parapiglia che fa volare brandelli di vesti e tabarri giù dal ponte, interrompendosi un istante prima dell’atteso tuffo.
“Stoop!”
Una, due, tre volte. Ne seguiranno molti prima di iniziare la sequenza decisiva. Steve Griffin il coordinatore degli stunt (un veterano che ha già seguito le scene più calesse di The Italian Job) controlla ogni dettaglio ancora una volta, mentre l’operatore sul trabiccolo continua ad imbracciare e deporre la mdp, fino a quando tutta la sua concentrazione punta verso il basso. Si comincia, finalmente. Il pontile è un fremito, di freddo ed eccitazione.
Di nuovo la corsa, i vestiti che cadono, la folla che si concentra in alto ed ecco la zuffa fra nobili, cristiani ed ebrei: le mani si sbracciano, gli abiti volano, la discussione si infiamma e uno degli stunt viene scaraventato oltre il parapetto...un volo scomposto, incredibilmente realistico a cui segue poco dopo un secondo tuffo, inaspettato, di un altro stunt...
I sommozzatori si precipitano, ma è tutto sotto controllo e Rob Hunt e Andy Bennet (un veterano sull’acqua: tra i suoi precedenti Salvate il soldato Ryan, Titanic), i due temerari Jews protagonisti dell’acrobatica evoluzione, con ancora addosso i segni dell’impatto con l’acqua, vengono riportati a riva.
Un silenzio irreale e sospeso anticipa l’ordine liberatorio: “Stooop!” seguito, subito dopo, da un entusiasta “Bravi!” che scalda gli animi di orgoglio e fa scaturire un applauso esteso lungo tutto il Canal Grande, a cui si uniscono le urla eccitate delle comparse, ancora una volta protagoniste, ancora una volta determinanti, mentre dalla finestra dell’Hotel Ponte Antico, per una volta, le stelle stanno a guardare.
EPIFANIA DI UNA STAR
Fra poco tocca a loro, i protagonisti, che si fanno conquistare dai comprimari come il pubblico dell’incredibile parterre di Rialto. Turisti, giornalisti, addetti ai lavori, venditori che abbandonano per un attimo chioschi e merci per buttare un occhio su ben altre mercanzie, sbirciando fra le comparse per scorgere le belle cortigiane preparate e schierate splendidamente dalla squadra di Daniela Foà o per vedere le acrobatiche riprese effettuate dall’alto e dalla camera boat, l’attenzione di tutti è calamitata ancora una volta dal Ponte, mai così osservato, ammirato da ogni angolazione. Ora diventerà il palcoscenico su cui Antonio (Jeremy Irons) insulterà il misbeliever, “miscredente”, cut-throat dog, “cane assassino” Shylock (Al Pacino) sputando sulla sua gabbana d’ebreo.
Quando Al fa il suo ingresso, si fa gioco di tutti arrivando direttamente sul set e deludendo i fotografi posizionati in cima al Ponte che rassegnati attendono di scorgere almeno un ciuffo della sua chioma o l’orlo cremisi del suo costume. Anche noi attendiamo. Aspettiamo la fine di questo ciak origliando dietro la cortina di turisti e runner che tentando di preservare il set; e improvvisamente, pur ascoltandola per la prima volta, riconosciamo la sua voce chiara, che squarcia il brusio realtino, aizza la folla di comparse che urlano intorno a lui, incitandone la rabbia, il furore. La barba è lunga, autentica, e sotto il copricapo rosso riusciamo a scorgere i suoi enormi occhi iniettati di rabbia, autentica sete di vendetta, mentre alza il pugno per affermare la propria maligna natura di usuraio, il suo desiderio di rivalsa su Antonio, il Mercante buono, il cristiano capace di concedere prestiti gratis, di pagare i debiti dei più deboli, da cui il malefico Shylock trae quello “che Antonio chiama usura” e che per lui è solo “il giusto profitto”. Pochi gesti, occhi saettanti e i versi di Shakespeare, trovano voce, diventano odio sotto un piccolo basco rosso che in poche concentratissime battute, fa vibrare la scena di furia e poesia.
Termina la performance e, ancora sbigottiti, dai movimenti della security e della produzione, riusciamo a capire la strategia con cui il protagonista uscirà dal set. E’ un attimo. Si apre un varco. Due colonne di persone ci vengono incontro per attraversare il centro del Ponte e scendere dalla parte opposta.
La fiumana avanza senza esitare, a passo svelto. I fotografi sono gli ultimi a cedere e arretrano come gamberi pregando di non trovare troppo presto il primo gradino della discesa. Un rapido movimento e decidiamo di accostarci al muro del porticciolo dove sembra dirigersi il gruppo. Un’intuizione fortunata, perché nella frazione di tempo che segue, mentre davanti cadono i primi
Obiettivi e partono spintoni di avvertimento, noi ci ritroviamo in un cantuccio laterale a guardare la troupe che avanza e fra spalle palestrate e sguardi fulminanti della produzione scorgiamo una figura minuta, esile, ingobbita, con le mani intrecciate dietro al schiena che mormora, biascica, qualcosa con la testa china verso il basso. Il passo è regolare ma lo sguardo è perso. Gli occhi sono quelli di Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975, regia di Sidney Lumet), sgranati, enormi, eppure rivolti altrove.
Non sembra Al Pacino. Non è Al Pacino. Quello che ci sfiora borbottando chissà quali improperi e rimuginando folli pensieri è Shylock. La trasformazione compiuta sul set, continua fuori, supera i trabanelli, oltre la luce e si riverbera sul pubblico, su di noi.
Abbiamo la fortuna di assistere ad una metamorfosi, che ha in sé qualcosa di sconvolgente e che atterrisce per l’intensità della sua evoluzione. Ci spostiamo lungo il muro, sconvolti e spaventati allo stesso tempo come se stessimo assistendo ad un miracolo, non osando fare niente, nel timore di spezzare quell’incanto, stupefatti dalla manifestazione del genio, dall’epifania di una star.
E come la scia di un astro, passo dopo passo, in un incedere lento e calibrato, il fantasma di Shylock scompare. Il corpo si scioglie, rivelando una grave stanchezza, gli occhi si riempiono di stupore.
Al Pacino si guarda intorno e scorge per la prima volta i fotografi intorno a lui che si stanno dannando l’anima pur di accappararsi uno sguardo da schiaffare sulla prima pagina di chissà che giornale. E lui li guarda spaesato, come risvegliatosi da un lungo sogno, mentre sale sul taxi che lo accompagna all’Hotel Bauer salutando tutti con la mano, dispensando sorrisi e concedendosi generosamente ai flash che lo abbagliano, ai fans che lo chiamano, agli avventori del ristorante di fronte che increduli si strizzano gli occhi per non incappare, complice il buio, in qualche errore di valutazione (ma xe proprio Al Pacino!).
Lui sembra stravolto, con lo sguardo velato e ancora assente, di ritorno da chissà quale viaggio nella Venezia di fine ‘500 in cui ha perso e ritrovato se stesso, incarnando Shylock e i suoi demoni, diventando il sogno di un’ombra.
QUEL POMERIGGIO DI UN GIORNO DA CANI
Shoot day no. 28
Mercoledì 8 gennaio 2004. Si gira nel più antico ghetto d’Europa. Oggi Shylock si recherà in sinagoga a pregare con la figlia Jessica senza sapere che la giovane, innamorata di un cristiano, Lorenzo, trama contro il genitore per poter fuggire dalla sua tirannide.
Anche oggi c’è il solito via vai di tv, fotografi, giornalisti piazzati all’ingresso dello storico quartiere. Proprio nel campo che precede la Sinagoga in una stanza al piano terra è stato allestito il camerino di Al Pacino. La stanza in cui l’attore si prepara a diventare Shylock.
Il giorno prima, Maria, l’assistente di scena si è premurata affinché tutto fosse pronto per poter accogliere Al, i suoi pensieri, il uso bisogno di concentrazione. La frutta migliore, e ogni dettaglio curato alla perfezione. Ferma sulla soglia della porta dove l’attore farà la sua apparizione, custodisce l’attore e i suoi segreti.
Appena giunti su set, veniamo raggruppati dalla security che ci sistema dietro il solito nastro di sicurezza riservandoci, stavolta, una piccola tribuna da cui poter seguire gli spostamenti. Oggi i fotografi appaiono stranamente ammansiti e non sembrano in vena di mercanteggiare per una posto in prima fila...
Come si premurano subito di spiegarci, il giorno prima, a Palazzo Ducale, pur di vedere affacciati dalla loggia superiore Al Pacino e Jeremy Irons, le hanno pensate davvero tutte, arrivando addirittura ad interrompere le riprese, all’urlo “Al!” lanciato puntualmente ad ogni ”Action” del regista. Per questo stamattina tira aria di taciti accordi ed anche i più irriducibili si fanno accompagnare docilmente sulle retrovie, dietro la conquistata vera da pozzo, che per oggi assicurerà loro una buona postazione e qualche scatto decente.
Al Pacino è già in scena, mentre la giovane Jessica Zuleikha Robinson (impossibile darle più di 16 anni) in stand-by, si lascia tentare da uno spuntino al catering dove Michele prepara moke di caffè e cioccolata rovente per alleviare le sofferenze da gelo, cui sono ormai rassegnate le semplici comparse, nei loro vestiti succinti e leggeri, confortate solo dagli indispensabili “scaldini” infilati, ovunque lo consenta il costume di scena...
Gira voce da stamattina che Al Pacino non sta bene. Un giornale si dilunga sulle sue precarie condizioni di salute preoccupando mezza Venezia. Chiediamo in giro e qualcuno ci dice che Al non sembra in gran forma, ha sempre quella brutta tosse, quel respiro affannoso.
Un dubbiosi insinua nella nostra mente, ma non c’è tempo per congetture.
Finalmente Shylock esce dalla Sinagoga, per raggiungere il camerino ancora concentratissimo e guardandoci sulle corde del ring che nel frattempo ci è stato costruito intorno, sorride furtivamente, prima di infilarsi nella sua stanza a meditare. Poco dopo ritorna sul set e di nuovo ripassa davanti al alla nostra vera - vedetta - da pozzo e al recinto di celophan, sorridendo, stavolta mettendosi sull’attenti con saluto militare. Ma è velocissimo e il suo passo svelto permette solo scatti in corsa, mentre i fotografi si dannano l’anima come a bordo campo nel tentativo di immortalare un attaccante involato verso la porta per segnare. Una, due volte. Al Pacino fa la spola dal set al camerino, sotto lo sguardo vigile di Maria, e il campanellino d’ebreo appeso al collo diventa una specie di allarme che fa scattare un traffico di obiettivi, dando ai fotografi la possibilità di sbizzarrirsi e alla sicurezza l’ansia di confondersi.
Il via vai continuo e insolito alimenta la fantasia delle retrovie e le dicerie sulle precarie condizioni di salute del Padrino trovano terreno fertile, diventando, alla fine della mattinata, la notizia del giorno.
Chiuso il camerino alle spalle di Al, partono nuove contrattazioni tra i fotografi e i produttori in attesa dell’uscita della star dal campo finché, Barry Navidi, circondato e sopraffatto da un nugolo di flash decide di accontentare le richieste, accettando di mediare con l’attore per un’unica posa dal vicino attracco da cui partirà con il suo entourage.
Seguiamo la ciurma e ci ritroviamo presto a lottare per un angolino di pontile in attesa della star.
Stavolta la fondamenta è aperta e accessibile, e quando l’attore esce dalla calle attorniato da produzione e guardie del corpo non ci facciamo trovare impreparati. Ancora qualche passo, con gli gli occhi di tutti rivolti all’indietro, incollati su quel piccolo grande uomo, e finalmente Al Pacino è tutto per noi, ancora in costume, con sciarpa e cappotto in mano e un sorriso che la sa lunga...
Ci saluta e si ferma il tempo di qualche scatto. Una manna, per i fotografi in attesa di un scoop da spedire in agenzia, un attimo indimenticabile per chi, come noi, si trova di fronte l’incarnazione di un mito, di tante emozioni. Un attimo, una vita come recita il titolo di in un suo film (1977, regia di Sidney Pollack). Difficile da cogliere, impossibile da assaporare, senza cadere nel panico.
Qualcuno grida “sunglasses” per poter cogliere il famoso sguardo celato da enormi occhiali scuri ma lui, serafico, se ne esce in italiano con un “Non parlo inglese” a cui segue subito dopo, prima ancora che qualcuno possa gridare “occhiali!”, un lapidario “non parlo neanche italiano”...
Il sorriso luciferino, di fronte alle nostre risate, si scioglie in un caloroso saluto, prima di fuggire via dalla ribalta, dalle nostre adulazioni e da quell’attimo di piacevole celebrità. Nell’aria rimane l’eco di una risata che ci fa venire in mente un certo John Milton, il suo sguardo satanico e la massima che suggella L’avvocato del diavolo...
“La vanità non è forse il peccato preferito dal diavolo?”
Nel pomeriggio torniamo a Rialto e, mentre la troupe carica barconi di cavi, gruppi elettrogeni e attrezzature da traghettare lungo il Canal Grande fino al Ponte, noi ci incamminiamo attraverso ponti e calli prendendo i gondolini, attraversando canali assieme ai fotografi romani, milanesi, foresti li chiamiamo noi, e poco abituati alle onde della laguna che tremano barcollanti, attrezzature alla mano, vedendosi già in acqua e maledicendo il giorno in cui hanno deciso di imbarcarsi per venire fin qui.
Ma c’è Al Pacino ad aspettarci dall’altra parte e c’è un altro pomeriggio di attese infinite, di appostamenti studiati a tavolino come la mappa di un tesoro nascosto.
E siamo di nuovo in Erberia, tra serpentine di cavi sparpagliati ovunque, fari e treppiedi accatastati, mentre scenografi, assistenti, attrezzisti ed elettricisti smontano, rimontano, spostano e rimontano in un formicaio di inarrestabile operosità.
Non si girerà prima di stanotte, ci dicono i responsabili dell’imbarcazione che stasera porterà Bassanio (Joseph Fiennes) e Graziano (Kris Marshall) a Belmonte, dalla bella Porzia, e che per l’occasione verrà ridipinta e mascherata per diventare una nave del sedicesimo secolo.
Tra poche ore, l’Erberia vedrà Antonio salutare l’amico sotto una pioggia scrosciante e diverrà successivamente teatro dell’ira funesta di Shylock, convinto che la figlia sia fuggita con la stessa nave portandosi via tutti i suoi ducati.
Per questo, mentre la squadra di scenografi agghinda, vernicia e “sporca”, invecchiandola, l’imbarcazione, la big boat di Bassanio, tecnici e operatori posizionano i treppiedi che produrranno la pioggia finta e i fari che lanceranno lampi sulla scena principale, gli “special effects” di questa giornata di riprese.
Il pomeriggio scorre così, guardando come un certosino e minuzioso lavoro di poche pennellate e il faticoso movimento di Toni e dei bravi macchinisti della troupe, mentre scende la sera con l’umidità attanaglia le gambe e l’unico modo per scaldarsi è alternarsi intorno ad un insolito “focolare”, inventato dirottando ad hoc la potente luce di un Arri.
Così mi ritrovo a ripassare mentalmente, come se diventassero per la prima volta “vere” autentiche, alcune frasi del cinéroman, il piccolo romanzo cinematografico, di Mario Soldati che accompagna fedele le mie riflessioni sul set…
“Chi assiste per la prima volta a una ripresa cinematografica comincia credere impossibile che un bel momento si giri davvero. Eppure la lavorazione di un film procede sempre e soltanto così. Lentissima, esasperante, snervante, di interruzione in interruzione, di attesa in attesa, e talvolta per una sola battuta detta in un attimo da un solo attore, quaranta uomini debbono lavorare come dei forsennati per tre quattro ore”. Solo che qui gli uomini sono più di quaranta e delle ore oramai abbiamo perso tutti il conto.
Disperando ormai di riuscire ad assistere ad una ripresa, facciamo spola tra il catering, e l’altra sponda del canale da dove obiettivi ormai rassegnati dal “nostro” pontile preferito, puntano sulla scena tutta la potenza di flash a disposizione, pur sapendo che al momento del ciak dovranno farne a meno e sperare nella sola luce degli Arri che illuminano la scena.
Il set si fa sempre più affollato. Comincia un via vai di comparse e di runner che iniziano a trincerare la scena.
Ci siamo, forse.
Jeremy Irons fa la sua apparizione, regale, elegantissimo, preparandosi a camminare sotto il porticato e a salutare Bassanio. Arrivano anche Joseph Fiennes e Kris Marshall, sicuramente quello più a suo agio al catering dove l’attore inglese, al contrario degli altri, in mancanza di una buona birra, al proverbiale tè inglese sembra gradire una buona ombra, magari di vin brulé, che scalda le membra e rinvigorisce gli animi.
Ci appollaiamo vicino al tribunale da dove riusciamo ad osservare la camminata del Mercante Antonio, la corsa di Graziano e il saluto dei protagonisti, accolti dalle comparse sull’imbarcazione, stavolta impegnate a reggere enormi fiaccole che circondano gli attori.
Freddo. Un freddo che intorpidisce. Le nuvole di fiato si sprecano e la camminata di Jeremy Irons ad ogni ciak ripetuto si fa più vigorosa, quasi a voler esorcizzare il gelo e la terribile umidità veneziana.
Ma chi se la deve vedere brutta sono i poveri generici, in calzamaglia leggera, sotto il temporale che dai lati della piazza inizia ad annaffiare il set. Lampi, tuoni. Si prepara l’arrivo di Shylock e tutti si ritrovano a pensare preoccupati alla salute del protagonista, al rincorrersi di notizie e allarmanti illazioni a seguito di quella tosse insistente che sembra aver colpito e debilitato Al Pacino.
L’attesa e la curiosità per una scena così difficile, innesca la chiacchiera e qualcuno, in veneziano, emette una colorita e lapidaria sentenza: “xe deventà proprio un cagnasso”, un vecchio cane randagio e pieno di magagne, ignorando che lo stesso Shakespeare in un verso del I atto, III scena de Il Mercante di Venezia usò la stessa parole per definire il suo protagonista “…’Hath a dog money? Is it possibile/A cur can lend three thousand ducats?”(1)...
L’arte e la vita, più vicine di quanto si possa immaginare.
Ci scappa un sorriso, e il dubbio si fa certezza nella nostra mente, mentre lo vediamo arrivare.
La stessa concentrazione della mattina, la stessa camminata ingobbita e lo sguardo torvo.
Shylock entra in scena, e mentre tuoni rompono il silenzio, scatena la sua furia...
...a passion so confused, so strange, outrageous, and so variable – As the dog Jew did utter in the streets: ‘My daughter! O my ducats!’(2)…
Un rancore profondo, anima la sua voce roca impastata di rabbia, ed eccolo il cane randagio, il vecchiaccio malandato, l’attore stanco dal respiro affannoso...
In un groviglio d’ira animalesca, si trascina nell’oscurità, senza trovare pace né consolazione.
La metamorfosi è compiuta. Ancora una volta, lasciando con un palmo di naso tutti i presenti. Che ora in silenzio ascoltano attoniti il lamento agonizzante di un uomo sotto la pioggia che scroscia violenta e che nessuno ormai sente più.
Allontanandoci dal ronzare degli Arri e dal palpitare di un’emozione che ci non ci lascerà più, non possiamo fare a meno di ripensare alle nostre ore passate sul set e a quelle di uno scrittore che nel 1934, visitando uno studio cinematografico, imprimeva con lucidità e straordinaria modernità, le nostre stesse emozioni, fissando in una folgorante descrizione una giornata di lavoro, svelando e perpetuando quell’attimo interminabile in cui lux fuit, e divenne cinema.
“…E così, di inquadratura in inquadratura, provando e riprovando per ore e ore le medesime battute e le medesime espressioni, e con esasperanti incidenti di ogni genere che sempre ritardano il lavoro, passa la giornata. Ma è un’occupazione, per tutti, così intensa, così esclusiva, così – in certo senso – fuori dalla realtà, o così tesa a creare un’altra realtà, che le ore fuggono senza avvertire: se non che a un tratto, e come distrattamente, ci si sente stanchi, spossati, e con uno strano languore allo stomaco, che poi è pura e semplice fame. Si dà un’occhiata fuori del teatro: è buio e ci pare che poco fa splendesse ancora alto il sole. Si chiede l’ora: sono le nove di sera. E chissà, bisognerà restare sul lavoro, digiuni, fino alle dieci, alle undici, a mezzanotte, fino a che il Direttore non creda opportuno dare l’ultimo stop”.
Mario Soldati
Ottavia Da Re
Note al testo:
1. W. Shakespeare, Il mercante di Venezia, III, 1 (Trad.:“Un cane ha forse soldi? E’ possibile che un cagnaccio abbia tremila ducati da prestare?”)
2. W. Shakespeare, Il mercante di Venezia, II, 8 (Trad.: “Una furia così sconclusionata, così violenta, mutevole e strampalata come quella cui s’è abbandonato per istrada il cane ebreo”).
Approfondimenti e riferimenti bibliografici
William Shakespeare, “Il mercante di Venezia”, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2000.
Mario Soldati, “24 in uno studio cinematografico”, Palermo, Sellerio Editore, 1985.
Luigi Pirandello, “Quaderni di Serafino Gubbio operatore”, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1992.
Sandford Christopher, “McQueen. La biografia”, Baldini Castaldi Dalai, 2003.
Augusto Gentili, “Carpaccio”, Firenze, Giunti Editore, 1998.
Piero Zanotto, “Veneto in film”, Venezia, Marsilio, 2002.
Un ringraziamento speciale a Nicola Minghetti, per l’aiuto e la collaborazione, Massimiliano Goattin per le splendide immagini Al Pacino scattate all’Isola di San Giorgio, a Davide Calimani, Angelo Russo, Toni Viola e a tutta la troupe de Il mercante di Venezia, senza la passione e il sostegno dei quali non avremmo mai potuto realizzare questo nostro piccolo reportage.
Vai allo speciale IL MERCANTE DI VENEZIA
Guarda le immagini più belle del backstage
Sito ufficiale italiano: http://www.luce.it/istitutoluce/film/mercante
Sito internazionale: http://www.themerchantofvenicemovie.com / http://www.sonyclassics.com/merchantofvenice / http://www.mgm.com/uk/merchantofvenice
Foto © Ottavia Da Re, Luca Boeretto, Massimiliano Goattin (web site: http://xoomer.virgilio.it/mgoattin) per www.quellicheilcinema.com.
Tutti i diritti sui testi e sulle immagini sono riservati
|