The Ring 2
Jake (Ryan Merriman), un adoloscente spavaldo e sbruffone tenta di convincere la sua ultima conquista a vedere una strana VHS per poter scaricare su di lei la maledizione che pende sulla sua testa come una spada di Damocle da ormai 7 fatidici giorni, ma quando le prime immagini iniziano a scorrere sullo schermo, la ragazzina si copre gli occhi spaventata, mentre l’acqua inizia a scorrere sul pavimento e un terrore paralizzante fulmina per sempre il giovane e ogni sua speranza di sopravvivere ad un destino già segnato. Samara è tornata e il cerchio che cinge il pozzo della sua sepoltura si riapre per raccontare il passato di una piccola sfortunata ragazzina dai lunghi e spettrali capelli neri protagonista della saga giapponese tratta dal romanzo “Ringu” di Koji Suzuki e portata in scena da Hideo Nakata (The Eye) che ritorna dietro la mdp da presa per riappropriarsi della sua "maledizione" (dopo aver diretto in patria i primi due capitoli della saga e aver lasciato a Gore Verbinski la regia di The Ring) e rifare per il pubblico americano il suo Ringu 2, dando origine ad un ibrido filmico per quello che si potrebbe definire, non senza un certo turbamento, remake di un sequel.
Ma se vi aspettate sadismo, atmosfere raggelanti e terrore puro, ingredienti tipici del cinema horror giapponese d.o.c, rimarrete profondamente delusi.
Il regista, infatti, non solo decide di adottare un approccio molto “annacquato” rispetto a quello teso e acuto di Verbinski, ma si avvale di scelte stilistiche e di risvolti narrativi alquanto banali, davvero innocui ai fini dei tanto sbandierati "horrorifici" del film (chi li ha visti?), adottando una regia poco calibrata sulla poetica della tensione che invece il novello (del genere) regista americano, aveva saputo esplicare abilmente, pur lavorando su un soggetto non originale e già sviscerato in terra d’Oriente, con una maestria memore delle sempiterne lezioni hitchcockiane.
Certo, non è facile costruire un thriller avvincente su vicende già note, descritte e inflazionate, e su situazioni già “bruciate” nel primo film, tanto meno rifare lo stesso film a distanza di poco tempo solo per fornire una versione occidentalizzata di una pellicola già di per se poco riuscita in originale. Ma Hideo Nakata, pur proseguendo sulla strada tracciata da Verbinski (l’incipit con i due adolescenti sfortunati, l’ennesima ricerca della protagonista e i suoi problemi con il figlio...), non riesce mai neanche lontanamente a riproporre la carica emotiva, la costruzione lenta ma efficace della sua architettura della tensione, che scatenava panico e nervi a fior di pelle ad ogni sguardo della protagonista.
Il regista giapponese decide di puntare tutto sui risvolti “demoniaci” della vicenda, assecondando una sceneggiatura senza capo né coda che mette da parte le suggestioni legate alle persecuzioni telefonica (mettendo a tacere la letale vocina che annunciava i fatidici “7 giorni” di scadenza…), alle suggestioni da videotape, così efficaci e capaci, con il loro substrato di significati legati alla visione di evocare concetti metacinematografici, per addentarsi nel passato del piccolo demonio in sottoveste facendo sembrare il tutto, più che il seguito di The Ring, il prequel di Riposseduta…
Il resto è un’insieme di apparizioni, di fantasmi e di trovate poco credibili, tanto meno spaventose, nel tentativo a dir poco forzato di mantenere desta l’attenzione del pubblico su una storia stanca, sfruttatissima e incapace di produrre spunti interessanti. Con il risultato di finire spesso “fuori tema” con virate narrative poco sensate che passano in modo, tanto disinvolto quanto incoerente, dal tavolo di una "seduta spiritica" a quello di una "seduta psichiatrica", durante le quali il complesso rapporto madre-figlio, che costituisce la base tematica del film, viene più volte banalizzato, finendo per diventare solo un pretesto per innescare la "singolar tenzone" tra la protagonista Rachel Keller (Naomi Watts)e con quel "demonio" di suo figlio Aidan (David Dorfman) e concludere un esorcismo che, a dispetto della sua natura, non lascia nessun inquietante strascico (al contrario del primo film che si chiudeva con un finale molto cinico e davvero poco rassicurante) che giustifichi in qualche modo tanta profusione di suggestioni sataniche.
A nulla servono i raggelanti e, a tratti, forzati sguardi del piccolo David Dorfman né le splendide musiche d’atmosfera di Hans Zimmer, pressoché identiche a quelle del primo film, mentre le altre componenti tecniche, tra cui fotografia (Gabriel Beristain) e montaggio (Michale K. Knue), perdono la valenza narrativa e le suggestioni oniriche che The Ring aveva reso, valorizzandole, protagoniste assolute.
E non possiamo fare a meno di ricordare l’impietoso cameo in cui si è dovuta cimentare la monumentale Sissy Spacek, qui camuffata da madre di Samara (con tanto di sottoveste e capello lungo arruffato), rinchiusa in manicomio in preda alla follia e al delirio. Un probabile quanto improponibile omaggio a Carrie - Lo sguardo di Satana di Brian De Palma che riesce solo farci intravedere, attraverso una ciocca di capelli neri, la distanza abissale tra quello sguardo glaciale capace di terrorizzare a colpi di angelica purezza, e un soggetto, quello di The Ring 2, buono solo per incrementare le gag del prossimo capitolo di Scary Movie.
Per fortuna "ci mette una pietra sopra" (in tutti i sensi, speriamo...), la sempre brava e intensa Naomi Watts, ma la sua intensità espressiva non basta a "chiudere il cerchio" di un vicenda pasticciata, ormai vittima delle sue stesse suggestioni e di un altro thriller "shakerato" senza macchia e senza - la benché minima - paura.
Ottavia Da Re
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