The Village
Uno dei dilemmi che l'immagine cinematografica ha affrontato nella sua storia è nato davanti al bivio fra due
concezioni d'estetica per il linguaggio filmico: la concentrazione sulla dimensione spaziale o su quella temporale.
Ejzenstejn e molti suoi seguaci della scuola russa, ad esempio, già elaborarono teorie che prendevano posizione in favore del
tempo (allora la semplice sincronizzazione delle tracce audio e video) credendo nell'importanza di un montaggio che
estremizzava la discontinuità fra inquadrature.
Costruendo The Village, il regista M. Night Shyamalan dà fortemente l'impressione di aver preso le mosse da un'idea
per alcuni versi diametralmente opposta, congelando la sensibilità temporale per una ben costruita - per questo a tratti
nascosta - predominanza dell'altra dimensione, quella spaziale.
La location stessa è quantomai congrua all'operazione: un piccolo villaggio, probabilmente del tardo XIX secolo
(l'anno preciso? Poco importa), immerso nella spettrale tranquillità delle foreste che lo circondano. Un consiglio dei più
anziani, capeggiato dal reverendo Edward Walker (William Hurt), a giudare la comunità. Su cui, a dispetto della placida
ripetitività della routine, incombe un'ignota minaccia: le Creature Innominabili che abitano i boschi, per paura delle quali
nessuno ha mai lasciato l'autarchico paese ed esplorato il mondo circostante. Ma farlo sembra il sogno di Lucius Hunt
(Joaquin Phoenix), cui la madre Alice (Sigourney Weaver) e il consiglio di cui fa parte non hanno intenzione di dare il
permesso. Sarà l'amore fra Lucius e la figlia del reverendo Ivy Walker (Bryce Dallas Howard) a dare una scossa alla
situazione.
L'atmosfera è resa particolarmente densa, a tratti claustrofobica, dalla fotografia di Roger Deakins (già caro ai
fratelli Coen, con cui ha lavorato per molti dei loro film, da Il grande Lebowski a Fargo a L'uomo che non c'era),
che gioca sui contrasti delle gradazioni; ma soprattutto dall'uso dello spazio attraversato con calma e inesorabile
decisione dalla mdp. I movimenti di macchina sono lenti, e il loro uso è estremamente geometrico: la camera è spesso fissa ad
acuire il senso di statica gravità nel paese prigioniero dei suoi confini; a rompere la fissità sono in buona parte degli
zoom (che presuppongono un movimento fittizio), diversi sono i campi lunghi, con un breve piano sequenza che precede il
momento della rivelazione-svolta. Rivelata a sua volta, questa, con un ulteriore sfasamento temporale, che rende più forte la
sensazione che lo scorrere del tempo sia vacuo, ininfluente ai fini del racconto. Le inquadrature, poi, fanno raramente uso
di semi-soggettive optando per la maggiore simmetria delle zenitali e delle riprese frontali, ingigantendo le scenografie con
contre-plongée che alimentano il senso di segregata inazione.
Ecco allora come - e perché - il tempo passa in secondo piano: è dilatato, a volte strapazzato da un montaggio
(quello di Christopher Tellefsen) che pare curarsene a fasi alterne. Per un risultato che crea suspance con un processo
somigliante a quello amato da Hitchcock, ma differente perchè non parte dallo stesso presupposto. M. Night Shyamalan (che
si concede di nuovo un cameo facendosi riflettere da un vetro nel finale) non allunga i tempi per creare tensione, ma genera
attraverso essi un senso di straniamento che diventa inquietudine giocando con ciò che, abbiamo visto, in The Village pare
costituire centro multiplo di interesse. Lo spazio, ancora.
La dialettica fra vedere e non vedere parte dalla figura di Ivy, vera protagonista della storia, la giovane cieca che
ha sviluppato una sensibilità tutta sua alla vita, e si espande alla tecnica narrativa. Il regista - già autore di un
precedente e brillante marchingegno costruttore di tensione attraverso l'ignoto che è Signs, 2002 - innesca un gioco nel
mostrare e nel non volerlo fare che ricorda a volte quello del gatto col topo nel rapporto con lo spettatore. Spesso la mdp
sosta immobile nella contemplazione inutile di particolari marginali, si perde a scorrere fra i rami degli alberi, ma taglia,
scorre come per errore sui momenti più significativi, non mostra (giustamente) le fattezze delle creature se non di striscio,
in tagli sfuocati. E innesca la più classica fra le paure, quella dell'ignoto. Anche se di paura non si tratta: il senso di
presagio e di anomalia psichica lasciano immaginare che una chiave del mistero ci dev'essere. Come se il regista glissasse
sulla possibilità di dare indizi quando rallenta con la camera senza riuscire a cogliere il tutto della visione, e indugia
dietro le schiene dei personaggi rendendo ostico il vedere quanto celano.
Tant'è che, a giudarci al finale per scoprire come la matassa si sbroglia, sarà proprio Ivy, che il bosco lo
attraverserà, compiendo un percorso in cui si può rivedere il viaggio verso l'età adulta; ma non comprenderà fino in fondo
cosa c'è oltre a causa della cecità. Un epilogo che, fra le righe, riafferma la labilità della percezione temporale, molto
più ingannevole del previsto.
Assai bravi i protagonisti, da Phoenix e l'esordiente Howard alla Weaver e Hurt, incluso Adrien Brody, qui nei panni
dell'emaciato squilibrato Noah Percy. Mirabile il lavoro di ricostruzione storica dello scenografo Tom Foden (Il genio
della truffa) e della costumista Ann Roth (premio Oscar per Il paziente inglese).
A peccare di presunzione è talvolta la sceneggiatura dello stesso Shyamalan, che nell'eccesso di volontà criptica
scivola qua e là nell'inutile effetto straniante dell'incomprensibile. Comunque interessanti tutte le scelte calligrafiche,
inclusi i titoli di testa che - come già nel Sesto senso - si espandono e si ritirano, ora seminascosti dai rami degli
alberi.
Alessandro Bizzotto
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