King Arthur
La leggenda del mito di Camelot è fiorita nel corso dei secoli dipanandosi in gradazioni differenti, sia nella
letteratura che (con il ventesimo secolo) nel cinema. Il proliferare di particolari e l'adattare un contenuto a contesti
diversi, secondo esigenze non solo legate al racconto, hanno prodotto come conseguenza un'immagine svaporata e morbida del
mito, coi risultati noti ai più. Senza ripensare necessariamente a deformazioni delle figure o al nascere di personaggi
accessori, gli aggiornamenti letterari prodotti sono approdati persino sui lidi della narrativa moderna; e in ambito
cinematografico le gesta di Artù e dei suoi celebri cavalieri sono stare usate, rovesciate, abbellite e servite in una
varietà di salse che hanno talvolta rasentato il ridicolo.
Il regista Antoine Fuqua, per rimaneggiare la nobile materia, ha evitato di porsi a seguito della lunga serie di
rimaneggiamenti e modellare contenuti acquisiti per la maggior parte a titolo derivativo. Torna a quelle che sono
considerate le origini della storia con intento bifronte: realizzare un film partendo dalle fonti prime di vicende così
famose, per scegliere di modellarle e utilizzarle in modo personalistico senza nulla dovere alla tradizione mitica; e gettare
sui fatti una luce di veredicità che li spogli dell'alone straniante della leggenda.
King Arthur torna al V° secolo d.C., epoca priva della compomente magica e dell'affettazione romantica. Roma domina
la Britannia minacciata a nord dall'invasione sassone. L'esercito che l'impero ha stanziato è un drappello di Sarmati,
ognuno dei quali è vincolato a servire Roma per quindici anni a seguito della sconfitta subita nel 175 d.C. ad opera di Marco
Aurelio. Lucius Artorius Castus, conosciuto come Artù, per metà romano e per metà britannico, comanda un'ormai sparuta unità
di cavalieri giunti alla fine del loro mandato. La loro libertà sembra vicina, ma da Roma il papa invia in qualità
d'emissario il vescovo Germanius, con un'ultima missione: recarsi a nord e trarre in salvo la famiglia di Marius Onorius,
incluso il figlio Alessio, pupillo del pontefice, scortandola fino al Vallo di Adriano per sottrarla alla furia dell'avanzata
sassone.
Il germe di verità che Fuqua inserisce nasce quindi dal ricalcare gli eventi che si vogliono origine dell'epopea
di Artù, riconoscendo ad essi dignità di fonte storica, per ricamarvi sopra con spirito creativo e soprattutto autonomo.
King Arthur non racconta ciò che per convenzione andrebbe narrato. Qui non c'è Camelot - almeno non ancora -, la
tavola rotonda si vede solo una volta e conta più posti vuoti che posti occupati, a seguito della decimazione operata da anni
di valoroso servizio. Persino l'unica dovuta presenza femminile, quella di Ginevra, il personaggio più visceralmente
affascinante tramandato dalla saga, entra in scena con connotati dalla carica innovativa spiazzante. Probabilmente la figura
dotata della miglior caratterizzazione del film, Ginevra è figlia di Merlino, che non è mago nè taumaturgo, ma (come la
tradizione rigorosamente storica vuole) capo dei nativi Pitti (o Woad). Erede del potere paterno attraverso linea
patriarcale, Ginevra viene così a rappresentare la radice autoctona della futura stirpe di Artù, origine di una discendenza
di popolazione indigena (pitti o pictus significa "gente dipinta", specchio dell'usanza di ornarsi di disegni tribali
con la colorazione blu ricavata dalla Pianta del guado). Ma Ginevra, qui ben interpretata da Keira Kneightley, è soprattutto
il personaggio più interessante sotto il profilo figurativo. Scartata qualsiasi soluzione ammiccante (il matrimonio con
Artorius è punto d'arrivo e non d'inizio, l'attrazione di Lancillotto è non corrisposta e solo accennata), Fuqua e lo
sceneggiatore David Franzoni non propongono la banale immagine di moglie ammaliante, ma quella di regina guerriera dal
fascino pungente, arcera provetta e alleata fedele.
La spinta creativa è efficace nella sua interezza, ora che si avvale di formule - e soprattutto materiali - di
provenienza tanto illustre. I precedenti di Fuqua, da Training Day a L'ultima alba, non facevano ben sperare, ma con
King Arthur il regista trova modo di indirizzare le sue risorse di narratore senza lasciare che l'enfasi e il barocchismo
scadano in scialba retorica sopra le righe. Certo, qualche trovata dimostra che il gusto per l'invenzione strampalata (ora
grottesca ora kitsch) lascia ancora tracce trasformatesi in pillole di bassa ordinarietà nella resa filmica. Excalibur, ad
esempio, non è più il magico fendente conficcato in un incudine, barometro della volontà divina in materia di successione al
trono; finisce per essere semplicemente la spada paterna che Artù prende con sè per vendicare la morte della madre. Solo che,
vuoi per richiamare il celeberrimo episodio dell'estrazione della spada dalla roccia, vuoi per inclinazione ad ampollose
scene madri, il bambino Artorius la estrae dalla tomba paterna su cui era conficcata a guisa di monumento funebre. E ci
sarebbe poi tutta la rappresentazione dei truci sassoni, guidati da un capo (Stellan Skarsgård) via di mezzo fra Gandalf e
Grande Puffo, spaventoso più a parole che per l'aspetto da vittima sopravvissuta a un incidente in tangenziale. Ma la
compattezza stilistica e intenzionale (assenti brusche virate in materia di toni) porta al film una credibilità che, a fronte
dei rischi cui si esponeva, suscita ammirazione per l'onesto entusiasmo di tutta la messa in scena.
Straordinario protagonista, Clive Owen sottrae Artù allo status di icona adattandosi all'immagine grezza del
cavaliere per rivederla con idoneità sia fisica che interpretativa. Apprezzabilissima è pure la ricostruzione scenografica di
Dan Weil, mentre la livida e nitida fotografia di Slawomir Idziak è esaltata dal montaggio di Conrad Buff e Jamie Pearson,
valido supporto alle sequenze più riuscite. Tant'è che, pur in un noto clima di sovraeccitazione strisciante, numerose
sequenze sono predisposte e coordinate da un polso saldo e con esiti inattaccabili. Su tutti brilla, per rigorismo geometrico
e forza ottica, il momento della prima scaramuccia contro la fanteria sassone sul lago ghiacciato con lo spaccarsi della
lastra d'acqua gelata.
Al virtuosismo formale si unisce inattesa misura, che scarta l'eccesso di durezza e riesce, anche se con qualche
eccezione (un Lancillotto troppo freddo e borioso), a espellere l'eccesso esuberante dalle caratterizzazioni, limpide e in
definitiva credibili a dispetto di un abisso temporale di sedici secoli.
Alessandro Bizzotto
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