La fiera della vanità
L'adattamento firmato dall'indiana Mira Nair del celebre Vanity Fair di William Makepeace Thackeray è sontuoso ed
elegante fin dai titoli di testa: menzioni che si rincorrono su particolari di gioielli, occhi e piume di pavoni, gocce e
increspature sull'acqua scura, fiori, quasi a omaggiare il manierismo anni Novanta che Martin Scorsese ha fatto esplodere
con l'incipit floreale de L'età dell'innocenza.
Musiche magniloquenti (scritte da Mychael Danna) e un allestimento storico mirabile, opera di Maria Djurkovic (scene)
e Beatrix Aruna Pasztor (costumi) per raccontare l'Inghilterra napoleonica e della Restaurazione con spirito ironico e amore
per il dettaglio erudito. E un'eroina che, affidata alla leziosa testardaggine dell'americana d.o.c. Reese Witherspoon,
finisce per diventare archetipo (dagli eccessi anacronistici?) dell'arrampicatrice sociale senza scrupoli e senza etica.
Rebecca (o Becky) Sharp è cresciuta fra le britannicissime educande di un collegio religioso. Ma essendo orfana di
padre squattrinato - un artista più abile col pennello che negli affari - ha dovuto guadagnarsi da vivere stando dietro alle
faccende domestiche. Comprensibile che, raggiunta l'età, voglia lasciare l'odiata sistemazione per accettare un incarico come
istitutrice presso una famiglia dotata di rango nobiliare. Ma dietro gli occhioni e il fare caramelloso Becky nasconde anima e
unghie d'acciaio: saprà appigliarsi ad ogni conoscenza illustre pur di risalire nella gerarchia della piramide sociale. L'etichetta e le convenzioni saranno un terreno scivoloso e spesso poco fertile.
Mettendo sullo schermo una storia simile con occhio smaliziato, la Nair si prende tutta l'ironia di chi gioca su una
materia datata eppure sempre attuale, rifiutando l'analisi critica che l'Occidente leggerebbe in chiave sociologica per un
affresco che invece sociale é (ma senza pretese analitiche).
Il dilemma è sempre biforcuto: amore o denaro? Già in partenza la domanda suona intrigante. Ma La fiera della vanità non procede con sinuoso gusto del sottinteso, imitando quell'insieme di regole non scritte che chiudevano le porte del ceto
sociale nobile o borghese alla sfrontata Miss Sharp di dubbie origini. Parte invece in quarta con una struttura poderosa
e davvero vanitosa, fatta di episodi sfarzosamente costruiti con le inquadrature che si fissano sul particolare negli
interni per correre a campi lunghi in esterno, con zoom e carrelli a fare bella mostra della ricca sintassi filmica che la
regista ha imbandito per appagare l'occhio.
Le origini indiane della Nair sono riaffermate con orgoglio anche in una produzione statunitense: la mano é calcata
sull'accenno al colonialismo in più di un'occasione, anche polemica; il padre della migliore amica di Becky, Amelia (Romola
Garai), parla ad esempio di "nipotini color mogano" paventando l'ipotesi che suo figlio sposi un'indiana. E via così, squarci
di India
s'affacciano in sequenze raccontate e soprattutto nel finale aperto e in definitiva vagamente conciliante. Una scelta
nascosta in parte dietro un amore per l'elemento storico - già citato - che porta a render conto non solo degli eventi
(l'esilio di Napoleone, la sua fuga dall'Elba, la carneficina di Waterloo...), ma anche e soprattutto della moda e del
costume. Del resto é anche, o in buona parte, di manovre femminili che qui si parla, di imprese non sul campo di battaglia ma
nei salotti e nelle sale da ballo. Ecco quindi documentata la moda dell'esotico che contaminò il gusto occidentale fin dal
Settecento, che qui diventa passione per la lontana India - il paese che più di ogni altro la civetta Becky desidera
visitare - in una visione che esclude però la Cina (oggetto di culto modaiolo nell'arredo e nel décor in molte corti
europee).
Mira Nair rilegge buona parte della tradizione del cinema storico in costume. Non solo nella cinefila somiglianza
allo Scorsese degli anni Novanta dei credits, ma anche spolverando e ripresentando tutti i topos di genere: la cena e il
rito del cibo, la musica al pianoforte (Becky è chiamata in più di un'occasione a suonare e cantare), il ballo. E sotto questo
aspetto c'è somiglianza anche con Ragione e sentimento di Ang Lee, con il suo uso degli interni che sono teatro per il rito
sociale imbellettato e ben presentato. Le citazioni cinefile, poi, sembrano arrivare fino a Via col vento (anche se qui
sarebbe il caso di muoversi coi piedi di piombo) nella scena dell'addio fra l'avida Becky e l'amato marito Rawdon (James
Purefoy): alle suppliche di lei che dichiara d'amarlo, lui risponde con freddezza "Questa é la tua sventura" à la Rhett
Butler. Se si aggiunge l'osservazione "Una gatta é miglior madre di lei" (ricordiamo tutti come in Via col vento questa
fosse una delle accuse rivolte a Rossella da Rhett) non si può non notare come in definitiva la costruzione multiculturale
de La fiera della vanità
metta al fuoco un quantitativo di carne che rasentando l'eccesso può appesantire il risultato.
L'inerzia con cui più di una sequenza si trascina risente dell'abbondanza visiva che pure fa i conti con i tagli
apportati al romanzo dalla sceneggiatura di Matthew Faulk, Mark Skeet e del premio Oscar Julian Fellowes. Ma la suddivisione
dei 137' in sequenze ben coordinate rende lo scorrere degli eventi meno complesso, arginando i rischi di un inutile tracimare
d'eventi e dettagli. Così, sorretta da un cast indovinato (bravissimi James Purefoy, Rhys Ifans nel ruolo del devoto amico di
Amelia, William, e Eileen Atkins a interpretare Miss Crawley), la Nair taglia il traguardo e chiude La fiera della vanità tirando tutti i fili dell'intreccio; e, anche se non riesce a sciogliere lo strato d'ambiguità che ricopre la figura di Becky
Sharp (donna innamorata o solo avida? Madre e moglie o semplice avventuriera?), elude la possibilità di sdolcinate chiusure
moralistiche e salva il film da vuoti di pesante incompletezza.
Alessandro Bizzotto
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