Una casa alla fine del mondo
Romanziere amato dal grande schermo, Michael Cunningham s'è imposto all'attenzione delle plateee cinematografiche
grazie a Le ore (Pulitzer nel 1999), adattato nel 2002 da David Hare per il film di Stephen Daldry interpretato da Meryl
Streep, Julianne Moore e Nicole Kidman.
Forse non tutti lo sapevano, ma una decina d'anni prima - nel 1990 - Cunningham aveva dato alle stampe A Home at the
End of the World, la storia dei due ragazzini Bobby e Jonathan, tirati su dalla madre del secondo, il cui solido e intenso
legame si trascinerà fino all'età adulta e all'incontro con Clare, coinquilina di Jonathan che s'è scoperto omosessuale e poi
compagna di Bobby, la cui identità sessuale fatica invece ad emergere.
Se n'era però accorto Tom Hulce (già protagonista di Amadeus). "Le mie energie erano rivolte alla sfida di
raccontare una storia intera", ha dichiarato. E detto fatto ha trovato nell'esordiente cineasta Michael Mayer il regista per
'Una casa alla fine del mondo', già visto alla 61^ Mostra del cinema di Venezia. Colin Farrell (Tigerland) e Robin
Wright Penn (White Oleander) si sono calati nei panni di Bobby e Clare, il neofita Dallas Roberts è stato scelto per
il ruolo di Jonathan e un mostro sacro come Sissy Spacek, fresca della sua sesta nomination all'Oscar per In the Bedroom
nel 2002, ha accettato il ruolo di Alice, la madre di Jonathan.
Il tutto è stato costruito su una sceneggiatura dello stesso Cunningham, che ha pensato bene di adattare
personalmente il romanzo per il salto sul grande schermo. Sarebbe ingiusto dire che questo Una casa alla fine del mondo
rappresenta per l'autore un passo indietro rispetto a Le ore; ma è innegabile (e forse più corretto) ritenere The Hours
un passo avanti, aiutato di sicuro dai nove anni (forieri di maturità ed esperienza) che lo hanno separato da A Home at the
End of the World.
L'esplorazione profondissima che faceva il primo della psiche e dei conflitti interiori viene a sembrare, in questa
luce, come risultato di cui Una casa alla fine del mondo può essere prova generale. Michael Mayer sceglie un approccio
esistenzialista quanto a tono e minimalista in materia di stile. Ritraendo l'anomala educazione di Bobby e le fobie
adolescenziali di Jonathan con ardore disinibito e spontaneità - pensando addirittura a qualche strana invenzione formale
nel rendere l'effetto di uno stupefacente sul giovane Bobby, che si vede lievitare nell'etere e scorge addirittura il
futuro all'orizzonte -, il regista scioglie subito il pathos di cui la storia poteva giovarsi per una leggerezza che
correttamente non marca il film imprimendogli ansiosi toni drammatici; ma l'assenza di moralismo e il volontario distaccarsi
dai particolari inquieti nei ritratti lasciano che Una casa alla fine del mondo svapori e si colori di tinte diverse,
ora acquose ora definite, e mai eccessive quanto a durezza.
Molti passaggi (pur pensati per una sintesi adatta all'essenzialità del racconto) privilegiano ellissi che, nel
richiedere sforzo cognitivo allo spettatore per colmare la lacuna del non visto, precludono la possibilità di vedere
l'emozione nascosta, il sentimento celato dietro i dialoghi di Cunningham, la cui concisione, quell'effetto potente che
possiede la parola senza fronzoli, deve giocoforza lasciare parte del vigore che ha sulla pagina scritta e arrivare sullo
schermo con effetti talora più stranianti che commoventi.
Il tutto si riflette anche sulle dinamiche ralazionali fra le figure dei quattro protagonisti, di cui solo quella
di Alice può dirsi tratteggiata nel tutto tondo dei suoi chiaroscuri. La complessità dei personaggi è sempre rispettata,
lasciata affiorare, è vero; il meccanismo cigola solo quando arriva ad analizzare i rapporti che legano gli attori
nella finzione, spesso taciuti, affidati a un silenzio che spetta allo spettatore - di nuovo - decifrare.
Giova comunque al film una coerenza che taglia fuori l'enfasi per strappare la lacrima e porta con sè una
partecipazione che diventa emozionale senza percorrere la strada della prolissità. Se questo è possibile il merito va in
buona parte all'intensa emotività degli interpreti. Colin Farrell e Dallas Roberts si fanno trasparenti per lasciare che la
mdp tiri fuori l'interpretazione dai loro corpi, stando al gioco di Mayer con efficace docilità. Così restano in prima linea
le attrici a farsi carico del peso dello spessore drammatico. Robin Wright Penn trova sotto tinta e make-up accesi una
delicata sintesi fra estroverso e fragile, sofferente senza essere patetica e limpida anche nel comico. Ed è soprattutto la
straripante sensibilità di Sissy Spacek a emergere e reggere le impennate emotive, per una prova di tersissimo spessore e
splendida energia.
Alessandro Bizzotto
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