Birth - Io sono Sean
Schermo nero e una voce off che scherza sulle eventualità della reincarnazione. Poi uno splendido piano sequenza in dolly che segue in plongée la corsa dell'uomo che ha appena parlato attraverso un parco imbiancato dalla neve fitta; un
colore nitido e livido che omaggia il bianco e nero. Usata in pompa magna, l'orchestra che accompagna l'apertura alterna gli archi all'uso delle percussioni.
Jonathan Glazer, che ha già firmato nel 2001 l'apprezzato Sexy Beast, con
Birth - Io sono Sean dà in primis prova delle sue qualità di raffinato esteta narratore. Anziché indulgere all'ammiccante atmosfera del sovrannaturale (che
facilmente sarebbe sfociata nel thriller, cosa che il film non vuol essere nonostante la fuorviante campagna promozionale
italiana), il regista ha intrecciato una storia piena di riferimenti complessi - e organizzata attorno a un'idea inusuale e
manifestamente difficile - con rimandi e sottigliezze che si connotano come conscio senso di padronanza anziché essere
indecisione stilistica e concettuale.
Il tema é quello della reincarnazione. Anna (Nicole Kidman) ha perso da dieci anni il marito Sean, crollato nel bel
mezzo del jogging nel parco innevato mostrato con l'incipit. Sta per risposarsi con l'accomodante Joseph (Danny Huston).
Finché un ragazzino (l'esordiente Cameron Bright) non fa irruzione nella sua vita mettendola davanti a una rivelazione
sconvolgente. "Io sono Sean". Non uno Sean qualsiasi. Propio quello. Per Anna la crisi arriverà inevitabile. La frattura
nel rapporto con il fidanzato esasperato dalle circostanze e lo scetticismo della sua famiglia (guidata dall'anziana madre
interpretata da Lauren Bacall) non le impediranno di abbandonarsi al dolce pensiero che il marito defunto sia tornato da lei:
il passato riemerge con forza, il dolore del lutto era sopito ma non superato. E Anna inizia addirittura a intravedere la
possibilità di ricostruirsi una vita con Sean.
Raccontato con curioso minimalismo, che porta a scartare ogni possibile surrogato del kitch (e con materiale del
genere l'operazione non dev'essere stata facile), Birth fa dello stile un'arma usata con coraggioso spirito d'analisi. Curando ogni particolare a livello visivo e narrativo, attraverso una concezione dei punti nodali che la sceneggiatura
scritta dallo stesso Glazer con Jean-Claude Carrière e Milo Addica disegna con fluidità e concisa precisione, il regista
riesce a non forzare e centrare il problema catturando l'interesse prendendosi - come si dice - sul serio ma non troppo. Il
peso delle connessioni e dei rimandi, che trasformano la storia via via in un piccolo gioco a incastro in cui alla fine un
mistero prende forma, non viene mai fatto percepire. E il film può così procedere liberamente senza rischiare di vedere la
cura per la foggia soffocare i fatti.
Glazer allora riempie la pellicola di preziosi accorgimenti belli da vedere e utili a capire. Iniziando dalle
potenzialità ben sfruttate della splendida colonna sonora di Alexandre Desplat, i cui guizzi ricalcano gli stati d'animo
dando voce all'inespresso, che in Birth si trova ad avere peso notevole, e addirittura (nella prima sequenza) ai sussulti
della vita che si spegne o che nasce. Giocando con la musica, il regista intreccia sviluppo diegetico e analisi introspettiva.
L'esempio più calzante è quello del crollo emotivo e fisico che ha il giovane Sean, ben sottolineato dal cupo stacco
orchestrale che si rivelerà poi essere quello suonato nel teatro in cui Joseph e Anna arrivano in ritardo.
La mdp non si muove mai a vuoto, ma conferisce al visto il taglio di un'interpretazione; per questo i movimenti di
macchina non sono né meccanici né scoordinati, ma anche se lenti conservano un'armonia che non ha senso solo a livello
estetico.
E Glazer costruisce Birth sulle spalle di una superlativa Nicole Kidman, che si mangia il film con
un'interpretazione tesa e sofferta, e accetta una nuova sfida nel percorso che l'ha sempre portata al successo attraverso
strade e scelte coraggiose, quasi mai convenzionali, e che fra le sue tappe annovera le regie di Jane Campion, Stanley Kubrick
e Lars Von Trier. Rinunciando al glamour splendente per il neochic del capello corto, sostiene a meraviglia la regia
nella creazione di un piccolo sottofilm che si anima ragionando per immagini. A teatro, lo stato sconvolto di Anna è mostrato
con grande impatto da quasi due minuti ininterrotti di piano primissimo sul volto della Kidman, che regge sul piano
espressivo con un impatto di grande forza.
E' pur vero che il film sembra prendere tanto gusto nel suo insinuante costruirsi da non preoccuparsi troppo di
spianare la strada a una conclusione che arriva come una doccia fredda. La regia costruisce e fila anche troppo una matassa
per sbrogliarla in fretta e ad effetto, senza scalfire la coerenza ma ammaccando l'agilità di un racconto che sul finale
frena in modo piuttosto brusco.
Ma il velato e l'evasivo sciolgono la tensione senza chiasso, abbinandosi al clima e al carattere di un film che
rinuncia in partenza all'effettaccio più acerbo, sposando un'elegantissima chiusura che non é né happy né risolutiva. E
accanto alla quale anche il fanciullesco e accattivante motivetto dei titoli di coda si carica di senso, trasformandosi per
contrasto in agrodolce vettore di amara ironia.
Alessandro Bizzotto
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