Monster
Dal vero è meglio. Di nuovo, il cinema segue la cronaca. Nerissima, in questo caso. Monster
indaga le origini della follia omicida della prostituta Aileen Wournos, condannata a morte
- sentenza eseguita nel 2002 - per l'omicidio di sette clienti. Tensione a una giustizia
arbitraria e indiscriminata, che affonda le sue radici nella frustrazione seguita a un'infanzia da reietta
e in un tentativo di violenza sessuale; la reazione che si scatena spinge la Wournos
a una serie di omicidi cui solo il suo arresto metterà fine.
Con un budget misero, ma forte della presenza nel progetto dell'appeal divistico di Charlize
Theron (che volle, fortissimamente volle Monster, divenendone produttrice oltre che
protagonista), la regista Patty Jenkins costruisce un film che dall'impianto di stampo
documentaristico si sposta al dramma consapevole a pieno delle regole della narrazione
cinematografica. Senza preoccuparsi dell'aspetto meramente strutturale (la cura nel racconto
stesso),
la Jenkins filma mettendo da parte la tendenza alla fedeltà cronachistica; non fa uso di veri
servizi su Aileen Wournos, nè di articoli di giornale sul suo caso, scegliendo una modalità
di racconto più personale di quanto fosse possibile aspettarsi da una regista indipendente alle
prese con una storia vera.
D'altro canto, la stessa verità è rimodellata, almeno nei dettagli. Soprattutto nella
figura della ragazza di cui Aileen Wournos si innamora, scoprendo la passione saffica come fuga
dalla violenza del desiderio maschile che l'ha sempre ridotta a oggetto. Nel film l'unica
speranza di redenzione è rappresentata dalla giovane Selby (Christina Ricci), una ragazza a
disagio fra le regole e le convenzioni dei parenti con cui vive. Nella realtà
il nome del grande amore della Wournos era Tyria, ventisei anni; il loro rapporto aveva
attraversato una serie di alti e bassi in vicissitudini che il film non si prende la briga di
raccontare (vuoi per evitare riferimenti troppo personali, vuoi per necessità di sintesi
biografica).
Eppure è proprio sul rapporto fra Aileen e Selby che Monster si costruisce, facendo leva
sulla forza del rapporto fra le due donne e consentendo così al disagio mentale della Wournos di
essere
trattato come aspetto complementare, ma privo d'importanza realmente strutturale. Lo sguardo
sulla follia omicida si avvicina inevitabilmente alle interpretazioni psichiche, comunque
abbozzate con risaputa stilizzazione (la grossolanità è dietro l'angolo); ma la Jenkins riesce
ad evitare l'implicazione in disquisizioni etiche di ragioni e torti, mostra più che
giudicare la condotta della "prima serial killer donna della storia". Una visione scelta che
si impone per coerenza, ma non riesce a eludere le enormi difficoltà dell'operazione.
Combinato alla ferma volontà di sfuggire alle tentazioni di ricostruzione filo-giornalistica,
il risultato di Monster resta invischiato in una freddezza che arranca nel trovare
un filo conduttore a livello di senso ed emozione, per un prodotto che sfocia in ibrido carente
nel carattere, per quanto mosso da nobili intenzioni.
Un difetto che il taglio della regia di Patty Jenkins riesce in parte ad ammorbidire,
mostrando la violenza senza scorciatoie di semplici allusioni, ma arginando l'effetto grottesco
di un'esibizione eccessiva.
Una linea di condotta coraggiosa che per certi versi gioca in proporzionalità
inversa rispetto all'interpretazione di Charlize Theron. Lineamenti deformati dal trucco,
pelle cosparsa di macchie e capillari, dentatura rifatta ad arte, la Theron si appoggia al
make-up giocando sull'estremizzazione del difetto fisico, dichiarando silenziosamente ad ogni
occhiata come la sua Wournos sia semplice vittima di una società gretta e classista.
Alessandro Bizzotto
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