Peter Pan
Liberatasi dalla tradizione in parte spuria messa sullo schermo dalla Disney nel 1953 con Le
avventure di Peter Pan, la fiaba tratta dal romanzo di Sir James Matthew Barrie si trasforma in
film passando attraverso le mani del regista P. J. Hogan.
La storia non cambia. Vanta, anzi, fedeltà ammirevole al racconto d'origine, apportando i
correttivi necessari a un soggetto più volte strapazzato.
Il cartoon del '53, apprezzabile in virtù di un'adesione piena di slancio alla fuga nel mondo
fiabesco, ammorbidiva quanto di inadatto la penna di Barrie poteva avere prodotto per le
atmosfere più favolistiche. Hogan, invece, sceglie di mantenere il tutto (pressochè) inviolato.
Riprende, pur senza calcare la mano, la tematica del blocco infantile davanti alla crescita e al
passaggio nell'età adulta - che ben si esplica nella contrapposizione, a volte ironica, fra i
Bimbi Sperduti e i pirati. Non rinuncia all'ambiguità, in particolare nelle figure delle sirene,
presentate dalla Disney come civette bisbetiche, ma che in Peter Pan si riappropriano del loro
fascino ambiguo e piuttosto dark.
Il film animato della Disney, poi, sceglieva di chiudersi con animo spensierato lasciando che
Capitano Uncino uscisse di scena inseguito dalla sua croce, il coccodrillo. Qui, invece, il
Capitano finisce correttamente fra le fauci dell'animale, che è giustamente rappresentato come un
essere mostruoso ed enorme anzichè come un semplice alligatore che riesce persino a strappare il
sorriso.
Un errore, quello in cui cadeva il cartone animato, che è stato alla base del pastiche in
cui s'è imbattuto Spielberg nel 1991, Hook - Capitan Uncino. Un finto kolossal che sviscerava
il problematico rapporto genitori-figli assumendo pretestuosamente che Uncino stesso (anzichè
esser morto come voleva Barrie) approdasse a Londra a distanza di anni per rapire i figli di un
Peter Pan cresciuto, sposato e senza memoria.
Ancora, nell'opera di Hogan l'uncino del Capitano torna finalmente alla mano destra (di nuovo
Barrie dixit). E se un legame con il passato rimane, questo è rappresentato dall'attillata
tutina di Campanellino (una Ludivine Sagnier tutta smorfie), il cui fisico rinvia a quello da
pin-up, alla Marilyn Monroe, della fatina del film animato.
Ma non fermiamoci al semplice confronto. Il Peter Pan di Hogan elimina sì gli elementi
apocrifi, ma dà anche al racconto una patina di esuberanza che non scade nel superficiale.
Il film finisce per essere una favola adatta a tutti, senza distinzioni d'età. Nuvole rosa ed
atmosfere gotiche (come nell'episodio della liberazione della principessa indiana Giglio Tigrato)
sono segnali chiari relativi al tipo di materiale trattato, ma alla storia fantastica si
accompagna a più riprese la componente disillusa, propria dell'adolescente e non solo del
bambino. E' una vera e propria delusione d'amore quella cui si trova davanti Wendy (nel film la
giovane Rachel Hurd-Wood) nello scoprire che i sentimenti di Peter Pan (Jeremy Sumpter) nei suoi
confronti non lo portano a superare il semplice scambio di un ditale, erroneamente considerato
un "bacio". Il bacio vero, poi, quello d'educazione sentimentale che si scambiano Wendy e Peter,
è pur sempre un contatto di labbra, per quanto casto. Può essere azzardato sotto l'aspetto
formale, ma non è difficile vedere l'ingresso di un amore più adulto nella favola, anche nel
notare Capitano Uncino che flirta, pur innocentemente, con Wendy.
E', al di là di tutto, il potere dei sentimenti che il film esalta giocando il racconto sul
doppio piano del reale trasportato nell'atmosfera onirica; sentimenti che trovano espressione
nei colori con un procedimento oppositivo per nulla nuovo. E' evidente soprattutto nella scena
finale come il rosa e il fucsia ciclamino siano sfondo ai pensieri felici, tinte che si
trasformano in quelle fredde del blu notte a indicare tristezza.
Nota stonata è la mancanza di vero coinvolgimento - e di simpatia - nel ritrarre in modo
grossolano gli scalmanati seguaci del protagonista, i Bimbi Sperduti, e più in generale nella
stilizzata presentazione dell'Isola-Che-Non-C'è, scenario che avrebbe invece offerto una quantità
ragguardevole di spunti. Di contro, sono inaspettatamente migliori le scene iniziali e finali
ambientate a Londra, ricostruita come città magica su cui i bracci meccanici della mdp corrono
come una steadycam, fra i campanili che spuntano dalle nuvole tinte dalla luce lunare. Così,
in un effetto davvero sorprendente, sono i momenti ambientati nella stanza dei tre fratelli
Darling i più spettacolari, con inquadrature ravvicinate e rovesciate ai mobili ingigantiti dalle
contre-plongée (inquadrature dal basso) e una fotografia, quella del bravissimo Donald M.
McAlpine (Moulin Rouge), che accende i colori giocando sui contrasti e sulle ombre che la luce
delle candele proietta sulle pareti. Il viaggio in volo verso l'Isola-Che-Non-C'è, poi, è
addirittura rappresentato con i ragazzi in volo che attraversano il Sistema Solare passando
accanto ai suoi vari pianeti.
Bravissimo Jason Isaacs, semplicemente perfetto nel doppio ruolo del signor Darling e dello
stesso Uncino, reso meno elegante del Dustin Hoffman di Hook, ma in definitiva più simpatico
e autentico. Una scelta, quella di affidare i due personaggi allo stesso attore, che riposa
felicemente sulle sue doti, e che gli permette soprattutto di incarnare con successo le due
facce dell'adulto nell'ottica dei ragazzi Darling (il padre ansioso e soffocante da un lato, il
pirata crudele dall'altro), in una connessione psicologica più acuta di quanto appaia, e per
questo più sottile.
Alessandro Bizzotto
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