La Passione di Cristo
L'orto degli ulivi è investito da una luce bluastra, invaso dalla nebbia, mentre gli archi,
cupi come in un horror, generano un senso di latente, mistica tensione. Iniziano così, la notte
fra il giovedì e il venerdì santo, le ultime dodici ore della vita di Gesù raccontate da Mel
Gibson ne La passione di Cristo.
Cattolico e, almeno in apparenza, moralista, Gibson antepone allo slancio appassionato
la congruenza storica nel mettere in scena un episodio che possiede valore non solo
documentaristico.
A metà strada fra Zeffirelli e Scorsese, il regista (già Oscar per Braveheart) ritrae il
suo Gesù con un calligrafismo deciso e mai affettato. Zeffirelli, con Gesù di Nazareth (1977),
aveva nei fatti trasportato sul grande schermo le parole degli evangelisti, esponendosi alle
critiche che vollero poi la sua opera troppo oleografica. Sul versante opposto, con L'ultima
tentazione di Cristo (1988), Martin Scorsese aveva scandalizzato i cattolici puristi
raccontando una storia sulla storia di Cristo, quella in cui il Messia, in un'allucinazione
sulla croce, s'immagina scendere e fare l'amore con la Maddalena venendo meno al suo compito
divino per una vita umana; un Gesù che si nutriva profondamente della ricca vocazione
cinematografica del grande regista, imbevuto delle sue scelte di poetica e di estetica.
Ma Gibson non è certo Scorsese, e l'impronta che lascia al suo film è quella fintamente
agiografica, con una sceneggiatura interamente costituita da dialoghi in aramaico e latino, il
cui pregio più grande è la decisione nel percorrere la strada che l'incipit indica. La
documentazione finisce per essere sopraffatta dalle scelte di una regia solida, ma troppo
presente, a tratti ingombrante. La conseguenza obbligata è ovviamente la carenza di emozione, ad
eccezione di quella che trasuda dai fatti (comunque pregni di significato), e il serio rischio di
far affondare anche l'ispirazione, con il risultato di rendere la spiritualità dell'opera
difficile da cogliere.
Insistendo soprattutto sulla violenza di cui Cristo fu vittima, Gibson copre di sangue il suo
attore, il comunque straordinario Jim Caviezel (La sottile linea rossa), per un Gesù che
diventa soprattutto icona, le cui battute sono ridotte ai minimi termini, legate in buona parte
agli episodi in flash-back. Non è casuale che il regista si sia basato, anche se tacitamente, in
particolar modo sul Vangelo di Matteo, che più degli altri pone l'accento sulla sofferenza umana
di Gesù nella crocifissione, e (così come il Vangelo di Marco) riporta il grido "Dio mio, Dio
mio, perché mi hai abbandonato?", assente invece in Luca e Giovanni.
Le scelte stilistiche del regista rendono certamente l'opera compatta. Diversi passaggi sono
apprezzabilissimi, se si considera l'involucro; notevole quello in cui l'inquadratura a
piombo sul Gòlgota è attraversata dalla prima goccia di pioggia del temporale che si scatena dopo
la morte di Cristo.
Ma la durezza marmorea del tono generale rende difficile l'approccio persino ai momenti più
delicati (le brevi scene che illustrano la vita di Gesù con Maria, prima dell'inizio della
predicazione), e appena Gibson tenta la metafora il risultato si gonfia in una ridondanza che
inaspettatamente si perde qua e là nel pacchiano. Francamente ridicole le apparizioni di un
Lucifero che ha le fattezze androgine di Rosalinda Celentano, dalle cui narici fa addirittura
capolino un verme. Troppo cariche tutte le sequenze dedicate alla sofferenza interiore di Giuda
(Luca Lionello), il cui rimorso assume le forme di mostruosi fantasmini che appaiono ora sul
volto di bambini pestiferi, ora in effetti degni del thriller sovrannaturale; in un eccesso
semantico, l'apostolo traditore si impicca addirittura all'albero sotto cui la carcassa di un
caprone (il capro espiatorio carico dei peccati di Gerusalemme, mandato a morire nel deserto?) è
divorata dalla putrefazione.
I passaggi più intimi e sensibili rimangono così quelli che vedono protagonisti un Ponzio
Pilato (Hristo Naumov Shopov) schiacciato dal dubbio e sua moglie Claudia Procula (Claudia
Gerini); è eloquentissimo il loro dialogo su verità e giustizia.
Comunque ottime tutte le scelte di cast, dal Caifa di Mattia Sbragia fino alla dolorosa
Maddalena di Monica Bellucci. L'attrice rumena Maia Morgenstern, che si è fatta le ossa
soprattutto in teatro, è poi una Maria di cristallina presenza, per quanto frenata in un dolore
contemplativo, superiore.
L'accento di alcuni interpreti, applicato al latino, è alle volte stonato; ma può esserlo
ancor di più sentire i personaggi romani che parlano la lingua di Cicerone con la moderna
pronuncia ecclesiastica, anzichè con l'originale pronuncia restituta.
Alessandro Bizzotto
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