The Garden of Earthly Delights (Il giardino delle delizie)
Nasce a Venezia Il giardino delle delizie, film firmato (sua la regia, la sceneggiatura il montaggio, la musica e la fotografia) da un talentuoso regista polacco, Lech Majewski, e realizzato con grande passione e professionalità da Mestiere Cinema. Un film che per la società veneta, guidata da Guido Cerasuolo, determina il passaggio dall'assistenza a realizzazioni cinematografiche internazionali (Il gladiatore, Star Wars, The Italian Job) alla produzione vera e propria di un progetto in cui Mestiere Cinema ha deciso di credere ed investire con il coraggio e la volontà di esplorare nuove possibilità visive in una realtà cinematografica, quella italiana, troppo spesso incapace di esprimere innovazione e timorosa da sempre di mettersi in gioco.
Nuovi stimoli e motivazioni che nell'orbita di Veneto CinemaPro, associazione di imprese e professionisti nata nel 2003 per valorizzare e sviluppare l'attività cinematografica, televisiva e della comunicazione nel Veneto, testimoniano un'originalità e una fervente sperimentazione di cui Il giardino delle delizie è il risultato più significativo ed emblematico.
Il film, tratto dal libro "Metaphysics" dello stesso Majewski, descrive il rapporto fra Claudia (Claudine Spiteri), storica dell'arte esperta di Bosch e Chris (Chris Nightingale), ingegnere navale impegnato nello studio della costruzione delle gondole. I due giovani s'innamorano a Londra, ma quando Claudia si ammala, decidono di trasferirsi a Venezia.
Intorno a loro, arte, passione, e morte.
Una morte che fin dall'inizio s'insinua in modo sottile, attraverso le bende della protagonista che celano il male ma lo fanno intravedere in trasparenza, e che il regista ricorda attraverso veli, garze nylon, tende, vetri con cui ricopre e svela la sua ninfa, la splendida e sensuale Claudine Spiteri che fluttua pallida e marmorea come una "grazia" solitaria rubata al Canova, portando il suo messaggio di libertà, di morte e di eternità.
Un'immortalità che la sua anima cerca disperatamente fra i piaceri di Bosch e che si sviluppa nell'ossessione per la sua immagine più enigmatica e famosa, Il giardino delle delizie.
Chris asseconda la volontà di Claudia, ricomponendo con lei le inquietanti e grottesche immagini del dipinto, riprendendo la sua vita che una mdp che renderà arte, traghettando la sua anima verso S.Michele, e lasciandosi traghettare, uomo in pena di dantesca memoria, dalla sua Beatrice verso le anime dei grandi (come Igor Stravinsky, alla cui sepoltura Lech Majewski dedica un'inquadratura) dove i sepolcri perpetuano la memoria che sopravvive ai corpi disfatti e ridotti a mucchietti di sostanze chimiche che non si possono ricomporre e restano cenere.
Chris ricompone altresì il mosaico della loro storia (come rimette insieme i pezzi della foto di Claudia appena strappata), riavvolge il nastro della loro vita insieme realizzando il sogno di lei di creare un film su Bosch, attraverso frammenti di un'esistenza votata all'arte e alla libertà, e determinando infine l'equazione arte-vita.
Il cinema diventa così medium attraverso il quale l'idea sopravvive al disfacimento fisico (come rivela Claudia al compagno). E lo sguardo dell'obiettivo, inizialmente voyeuristico, si spinge oltre ogni limite ("io filmo tutto" risponde gelido Chris al dottore che gli chiede spiegazioni), diventando una spietata lente costantemente puntata sulla vita della protagonista.
Quello di Chris è un atto d'amore e di rivelazione che lo distrugge, lo costringe a rivivere passione e sentimenti logoranti che, proprio perché impressi così realisticamente nelle immagini, si materializzano ancora più devastanti e intollerabili. Così il nastro si blocca, ed il "fermo-immagine" diventa l'unico modo per interrompere il flusso dei ricordi, per cercare di fermare l'inevitabile fine di Claudia e del suo amore per lei che tuttavia lo porterà, come in un percorso di purificazione, ad una nuova visione della realtà, quindi alla rivelazione, alla verità.
E mentre Chris rivive la loro storia, l'occhio del regista s'impossessa di lui coinvolgendo lo spettatore e creando un'identificazione di forte impatto visivo.
Inizia un viaggio difficile in cui la mdp raccoglie le immagini di Bosch, le riflessioni della protagonista e la sua estrema volontà di sprigionare la forza delle immagini de Il giardino delle delizie. Una mise en scene sensuale che coinvolge Chris e lo spettatore e che si fonde con la volontà di rivelare, attraverso un'intimità che si fa universale, il mondo di Bosch, di un artista capace di "trovare in terra quel Paradiso che Dante aveva immaginato sulla cima della montagna del Purgatorio", meta ultima di un percorso di pentimento e purificazione.
Il Giardino di Bosch, è il "luogo dove tutto è concesso", rivela Caludia, è il giardino dei piaceri proibiti, della libertà. Quella a cui aspira Claudia e che Chris riprende giorno dopo giorno, spettatore di un tableau vivant di cui diventerà presto complice e, grazie alla mdp, Autore.
Una potenza visiva che Lech Majewski concentra nel mezzo "digitale" capace di mantenere un approccio realistico (non è un caso che i due attori protagonisti Claudine Spiteri e Chris Nightingale abbiano dato i propri nomi ai personaggi) , quasi documentaristico, alla storia (che evita così di cadere nel patinato e nel romantico) e alla stessa immagine di Venezia (depurata anch'essa dai soliti stereotipi) che si trasforma nel corso del film in un contrappunto "metafisico" alle sperimentazioni dei protagonisti, una specie di sfondo vuoto e silenzioso, a tratti completamente "estraneo", alle loro riflessioni simboliche, ma fondamentale non-luogo con cui intrecciare suggestivi legami memori della pittura di De Chirico (emblematica l'immagine dei due soli fra le mura di un campo con le ombre allungate che si proiettano sullo sfondo) o di immagini dagli accostamenti surreali degne di un quadro di Magritte (nella bellissima immagine di Venezia che emerge dal vaso di vetro con il rospo in primo piano).
Suggestioni pittoriche che partono sì da Hieronymus Bosch (considerato spesso precursore di movimenti come surrealismo e simbolismo) e dall'immagine più celebre e inquietante del pittore fiammingo (il pannello centrale del Trittico delle delizie), ma che attraversano il tonalismo veneto (anch'esso influenzato dai fiamminghi) di Giovanni Bellini (di cui si ricorda il ritratto del Doge Loredan e la capacità del pittore veneziano di cogliere lo sguardo crudele del personaggio), la scienza di Leonardo Da Vinci, arrivando fino all'arte contemporanea (nel monologo finale della protagonista), descritta come punto di non ritorno per la storia dell'arte e simbolo estremo dell'Anticristo (tema caro allo stesso Bosch).
La pittura di Bosch diviene quindi una fonte sterminata e visionaria di citazioni, rimandi simbolici (i concetti di simmetria), iconografici, letterari (Dante), filosofici (Platone, Cartesio), di rara complessità e ricchezza che il regista evoca, filtra, descrive, ermeticamente, attraverso uno sguardo o, esplicitamente, attraverso i corpi dei protagonisti (le mimetiche raffigurazioni dell'uovo in equilibrio, dei corpi nella valigia, le note sul corpo di Chris).
Inquadratura dopo inquadratura, tuttavia, diventa davvero arduo per lo spettatore seguire il magma di allusioni, riferimenti e i diversi livelli di significato che si intrecciano nel film.
Una complessità che, pur testimoniando una capacità di sintesi visiva e una cultura artistica e letteraria eccezionale (con riferimenti al cinema di Peter Greenaway, che ne Lo zoo di Venere, realizza la messinscena di L'arte della pittura di Johannes Vermeer), a tratti pare lasciarsi andare ad un autocompiacimento che finisce per sovraccaricare il film di concetti e nozioni (che ne dilatano la dimensione spazio-temporale), riducendo la storia e i suoi protagonisti ad un pretesto per sperimentare più suggestioni possibili, attraverso una raffigurazione (che presuppone quindi una lettura) iconografica, costruita su più livelli di significato, su continui rimandi simbolici.
Un "effetto quadro" esplicitato dal continuo scambio e identificazione di ruoli e prospettive fra cineasta e pittore, inquadratura e quadro, obiettivo e mira, e che pone in primo piano il tema dello "sguardo", cardine di molte opere cinematografiche sulla visione, dall'occhio bunueliano di Un chien andalou a L'occhio che uccide di Michael Powell.
Da questo approccio intellettuale deriva l'inevitabile sensazione di freddo distacco che permea il film, una mancanza di coinvolgimento emotivo che ci fa assistere impotenti e quasi indifferenti alla lenta autodistruzione della protagonista (smembrata nelle componenti chimiche del suo corpo), al suo disfacimento fisico (che ricorda la lacerazione del protagonista di Morte a Venezia di Visconti), e alla sofferenza di Chris costretto a rivivere la loro storia e a sopravvivere all'ultimo, estremo, iterato tentativo di rewind sull'attimo che precede l'ingresso del dottore, in cui nel bianco più assoluto di una sala d'ospedale, il terrificante cigolare di una porta che si spalanca gli rivela la fine della vita, della passione, del film, ma anche l'eternità di un amore sublimato dal cinema.
Ma quello di Lech Majewski è soprattutto un approccio asciutto, fin troppo rigoroso, dove più di tutto parlano le superfici, i vuoti e i silenzi, in cui l'autore conduce un processo di severa astrazione, di nuda fissazione, depurando il film da facili sentimentalismi e da visioni convenzionali per mettere in campo la quotidianità, la normalità, con una camera a mano, un occhio analitico, che segue il suo soggetto fino all'ossessione, fino alla morte, in quella zona franca di libertà e piacere, splendida metafora del cinema, che è il giardino delle delizie.
Ottavia Da Re
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