L'ultimo samurai
L'incontro/scontro fra culture diverse è un topos che ha ispirato la narrativa fin
dall'antichità. Quando il cinema è arrivato a servirsene, lo ha fatto nelle gradazioni più
disparate; ma, dal momento che l'industia più efficiente in questo campo si è rivelata quella
americana, le storie che mettevano a confronto sistemi culturali differenti sono state quasi
sempre legate alla storia d'oltreoceano più che a quella europea. Così sono fiorite le narrazioni
sui pellerossa d'America, sulla loro civilizzazione ad opera del moderno Occidente prima,
sulla loro forzata cessione al mondo dell'uomo bianco poi. Un filone che ha seguito le maree
dei diversi generi, ma che fra alti e bassi non è mai morto, tornando in auge, rivisitato e
corretto, con la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta.
Siccome seguire una tradizione di successo è bene, ma rinnovarla è meglio, il regista Edward
Zwick ha pensato di riproporre la storica opposizione in chiave ancor più generalizzata (e
forse per questo meno rischiosa), adattandola e sposandola ai toni dell'epopea bellica e del
dramma. Via il vecchio West, allora. Per fare davvero le cose in grande, Zwick ha unito i due
estremi del mondo: gli Stati Uniti d'America e il Giappone. Ovvero l'allora nascente potenza
industriale e la culla dell'antica civiltà samurai.
Nel 1874 il capitano Nathan Algren, scottato dall'esperienza nel reggimento comandato dal
celebre generale Custer, che lanciò i suoi uomini contro un accampamento di indiani indifesi,
viene assoldato dal governo imperiale giapponese perchè addestri le truppe nipponiche con le
moderne armi e strategie occidentali; deve prepararle alla guerra contro un samurai ribelle che
con i suoi seguaci si oppone alla linea di governo che il paese sta seguendo. Catturato in
battaglia e risparmiato dal nemico, Algren avrà modo di scorprire che i samurai non sono cattivi
come sembrano e che forse i veri barbari non sono loro.
Balla coi lupi dall'altra parte del mondo, L'ultimo samurai rigetta però il moralismo
ansioso con un secco rifiuto dello sguardo bi-direzionale. Non c'è confronto, ma solo
un'opposizione fin troppo netta e accompagnata dal giudizio. Quant'è brava la civiltà orientale,
che sa proporre valori veri, che sa cos'è l'onore, che sa cosa significa il rispetto in
battaglia. A questo punto, il patrimonio culturale occidentale è da ripensare. Almeno quello
del secolo scorso (Zwick non si arrischia a proiettare il conflitto nell'era attuale). La brutale
freddezza dell'uomo bianco - o dello yankee, dipende dai punti di vista - esce sconfitta dal
paragone con il codice dell'antico oriente, più rigido ma a modo suo più etico.
Tutto servito col più accattivante dei sughi. Quella di Algren è anche una storia d'amicizia
(con il capo dei samurai ribelli) e d'amore (con la sorella del capo samurai; lo stesso Algren ne
ha ucciso il marito... nessuno fa una piega), d'ampie vedute e bei paesaggi mixati
all'immancabile avventura. Tant'è che L'ultimo samurai sembra creato più per piacere che per
raccontare. L'aspetto più intimo dei conflitti personali cede spesso il passo
all'elemento d'ordine superiore (le differenze nelle usanze, nei costumi, nella concezione della
guerra), tanto che i brutti ricordi di Nathan legati al campo di battaglia sono sintetizzati in
pochi e convenzionali flash-back in ralenti.
La forma visiva è priva di pecche. Sono eleganti le musiche di Hans Zimmer e le scenografie di
Lilly Kilvert; la fotografia, poi, è quanto di più smagliante e patinato si possa vedere,
perfetta per colorare filosofia e guerra per il grande pubblico.
Eppure, il racconto manca di vero entusiasmo. Le battaglie, tesissime nell'emulazione del
modello sempre rappresentato dal kolossal, sono spezzettate in molteplici inquadrature parziali
da un montaggio serrato che le devitalizza: non c'è un vero totale dei campi di scontro, quasi
nessun dolly, ma movimenti di macchina precisi e meccanici che rendono gli esterni simili ai
teatri di posa.
E tutto il film fatica nel proporre una soluzione basata sul rispetto per le culture
differenti - che si è sempre tradotto nel saperle leggere mantenendole distinte -, scegliendo la
strada del semplicistico rigetto di un sistema. Quello dello stesso Nathan, che
anzichè saper diventare un occidentale migliore, sceglie di essere un samurai d'adozione. Alessandro Bizzotto
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