Hollywood Homicide
Mescolare generi diversi è sempre stata un'operazione delicata. Non è un caso che i registi,
anche i più grandi, l'abbiano sempre fatto con molta prudenza. E se i toni da mixare sono molto
diversi fra loro, la questione si fa ancora più complessa e spinosa; è il caso
dell'abbinamento azione-commedia. Poco più di due anni fa Barry Levinson c'è riuscito con
risultati ammirevoli, dirigendo Bandits, la brillantissima action comedy con Bruce Willis,
Billy Bob Thornton e Cate Blanchett.
Ci ha riprovato quest'anno Ron Shelton (Tin Cup, Indagini sporche), imbastendo un film
sulla storia di due detective di Los Angeles, interpretati da Harrison Ford e Josh Hartnett,
alle prese con un caso d'omicidio in cui è coinvolto il sistema malavitoso. L'uno di mezza età,
smaliziato e tenace, l'altro giovane e pieno di bei sogni, prendono la vita e il lavoro con
la filosofia della routine, sempre pronti alla battuta.
Detto questo, è doveroso precisare che il paragone con Bandits va tutto a sfavore di
Hollywood Homicide. Nel film di Levinson l'ironia era inserita con sapiente equilibrio nella
storia, e veniva perfettamente assimilata dal ritmo dell'azione. Qui, i toni comici e quelli
dello spionaggio cozzano in continuazione cadendo nelle falle di una sceneggiatura atroce.
Il film è noioso e ripetitivo fin dai titoli di testa, che scorrono sulla serie di scritte
e insegne "Hollywood" disseminate per tutta la celebre zona di Los Angeles. Una ridondanza
profetica: Shelton, infatti, non riesce a salvare un momento del suo film.
Stretto nella morsa dei luoghi comuni (già visti, sentiti e conosciuti i personaggi dei due
protagonisti, ma anche quelli dell'editore discografico senza scrupoli e del collega geloso),
Hollywood Homicide è scandito da un ritmo incostante punteggiato di stonate impennate comiche;
sono lacrime quando il buon Harrison - che come secondo lavoro fa l'agente immobiliare - parla al
telefono con il potenziale acquirente di una casa mentre è alle calcagna del colpevole, durante
il rocambolesco inseguimento finale.
E certo non aiuta il lavoro del cast. Ford, purtroppo sempre più monoespressivo, recita con
sussiego evidente, rendendo noiosa tutta l'interpretazione e privandola del guizzo creativo che
pure il personaggio avrebbe potuto offrire (sciupa persino la sua unica buona occasione,
ballando da solo, accompagnato dalla radio, come un orso in letargo). Josh Hartnett, che tenta
di imitare Marlon Brando recitando, in una commedia nel film, il ruolo di Stanley Kowalski nella
pièce di Tennessee Williams Un tram che si chiama desiderio, si fa del male da sè. Non solo
nell'esito del confronto con Brando - volutamente comico -, ma anche nel prendere troppo sul
serio un personaggio piuttosto piatto e bidimensionale.
Inutili le esibizioni tecniche della regia che gioca con la mdp in modo prevedibile fino alla
nausea; criminale l'aver assegnato alla brava Lena Olin (L'insostenibile leggerezza
dell'essere, Chocolat) il ruolo di seconda mano, dal fascino stinto, della nuova fiamma di
Mr detective Ford. Alessandro Bizzotto
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