Tomb Raider - La culla della vita
Vedere un videogame sul grande schermo porta inevitabilmente a porsi diverse domande sul
rapporto fra l'arte e il digitale. E La culla della vita, seconda puntata delle avventure di Lara
Croft, lancia segnali allarmanti in proposito.
Arginiamo però i dibattiti sulle nuove tecnologie - che pure producono effetti cognitivi -. Il
loro intervento è fin troppo evidente, e Jan De Bont, già astuto utilizzatore di effetti visivi
con Haunting - Presenze, non si preoccupa di nasconderlo.
Le missioni impossibili della protagonista di Tomb Raider disseminano esplosioni ovunque,
colossali cataclismi naturali, e non solo, dagli effetti spesso devastanti. Questa volta
scomodano pure la mitologia classica (un preteso tempio completamente sommerso custodisce la
parte più consistente delle ricchezze di Alessandro Magno; il celebre vaso di Pandora diventa un
comodo cofanetto) e la tradizione geologico-ambientalista di origine tribale, peraltro fittizia
anch'essa (l'obiettivo qui è scovare la culla della vita, sorgente che ha dato origine a tutto
ciò che oggi esiste sul pianeta, in un punto remoto dell'Africa).
D'accordo, una storia del genere non può esistere senza qualche trucco computerizzato. E'
sempre vero che oggi non mancano gli autori che hanno fatto convivere l'effetto speciale e il
Cinema.
Ma il punto, e il problema, in questo Tomb Raider non è la presenza di effetti. E tirate le
somme non lo è nemmeno la loro fastidiosa invasività.
Ogni nuova tecnologia non ha radici sociali, ci hanno detto? Non nasce plasmata da una società?
E allora, se viviamo nell'era del digitale, che fastidio può dare vedere un laboratorio tutto
vetri e vetrini ridotto in frantumi dall'ultima arma di - così la chiamano! - lady Croft?
Devono turbarci un salto nel vuoto o una schiera di spiriti mostruosi, dopo che Spielberg ha
fatto risorgere per noi i dinosauri?
La questione non è questa, e forse è addirittura più semplice.
Alla radice qui abbiamo un problema di compatibilità. Nolo estetica, ma anche valoriale, per
quanto valga usare parole del genere. La culla della vita vuole proporre intrattenimento che
trova ragion d'essere nella sorpresa non-stop, nello stordimento sensoriale. E accettiamo pure
che possa portare emozione. E' comunque qualcosa di completamente artefatto, di congelato e
legato al momento della visione. Così come l'intero universo in cui la storia si svolge: la maxi
villa simile a un castello che lady Croft può permettersi di attraversare demolendone
l'arredamento durante gli allenamenti; organizzazioni che fanno temere per il globo sotto minacce
catastrofiche (questa volta c'è uno scienziato premio Nobel che vuole impossessarsi dei poteri
del male per dominare la terra).
Che fine fanno allora le idee, cuore pulsante di ogni storia? Cosa scegliamo di prendere in un
film che ne è così carente?
Possiamo divertirci (?), è vero, per quanto distruggere a calci un esercito di guerrieri in
terracotta possa essere spassoso. Ma il cinema non è ancora un videogioco, per fortuna, e se ci
si vuole rintronare allora tanto vale prendersi una play-station. Con quella si ha almeno il
vantaggio di non restare del tutto passivi davanti alle immagini. Per questo è poco utile anche
interrogarsi sulla fedeltà del film al videogame.
Fior di fantasy hanno mostrato sentimenti umani attraverso storie non realistiche. Se così non
fosse, i vari Signore degli anelli sarebbero da dimenticare subito.
Tomb Raider è tutto un'esibizione atletica, attraversata da una divertita Angelina Jolie, con
una sceneggiatura simile a un insieme di bit e byte non riconvertiti.
Perchè qui la scritta Game over non compare mai? Alessandro Bizzotto
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