Seabiscuit
Sono scatti di un'altra epoca ad aprire Seabiscuit, vecchie immagini in bianco e nero che
documentano la nascita delle moderne tecnologie industiali nel primo decennio del Novecento. Ed
è curioso che a costituire l'incipit di un film sulle competizioni equine e sul cavallo che
divenne una stella sia proprio una serie di testimonianze d'epoca sulla diffusione delle prime
automobili di massa. Una scelta curiosa senza essere provocatoria, sottolineata dalla battuta
dell'imprenditore Charles Howard (interpretato da Jeff Bridges), che per sponsorizzare le sue
vetture dice: "Non spenderei più di un dollaro per il miglior cavallo d'America".
Idealista e dal cuore tenero, Howard è uno dei tre motori della vicenda di Seabiscuit, un
cavallo considerato troppo piccolo e piuttosto pigro, ma che inaspettatamente si rivela un
campione nella corsa. Altre due anime del fenomeno, l'esperto allenatore Tom Smith (Chris Cooper)
e il fantino "Red" Pollard (Tobey Maguire). Howard ha perso il figlio in tenera età, tragedia che
ha mandato in frantumi il suo matrimonio; Smith conduce una vita solitaria, senza un tetto o una
famiglia; Pollard è stato costretto a separarsi dalla sua famiglia prima di raggiungere la
maggiore età, a causa del tracollo economico del Ventinove e dalla difficile situazione
finanziaria generatasi. Cervello, cuore, passione: Smith suggerisce a Howard, che nel frattempo
ha trovato un nuovo amore, di acquistare il bistrattato Seabiscuit e di affidargli come fantino
"Red". Il successo sarà travolgente.
Usando come strumento narrativo fotografie in bianco e nero, che ritornano puntualmente
durante l'intero Seabiscuit, il regista Gary Ross si presenta come un narratore esterno che,
dalla nostra epoca, fa rivivere una storia che divenne mitica incarnazione americana del sogno
del riscatto.
Lungo e piuttosto lento, Seabiscuit è un film molto convenzionale. E' convenzionale la
presentazione dei personaggi, senza ombre e idealmente contrapposti ad antagonisti che incarnano
boria e presunzione (come l'imprenditore proprietario di War Admiral, il cavallo da corsa che
sarà grande rivale di Seabiscuit). E convenzionali sono anche le riprese delle corse negli
ippodromi, seguite da brevi e numerosi movimenti di macchina, con ralenti che dilatano il
momento finale dell'esultanza nel trionfo.
La narrazione di Ross è accattivante, ma molto frammentata: le scene sono brevissime, episodi
che sintetizzano gli snodi della vicenda cuciti insieme con un ritmo piuttosto serrato.
Un'impronta, questa, che nella prima parte del film diviene palesemente difettosa; il racconto
episodico si fa eccessivo quando presenta un riassunto delle vicende dei tre protagonisti
lungo un'abbondante mezz'ora. Tutto a scapito dell'intera pellicola, che non solo fatica a
carburare, ma trascina anche con sè le conseguenze della scelta narrativa del regista.
La prima è quella sulla sceneggiatura. I dialoghi sono spezzati dalla brevità delle scene,
ridotti a semplici battute ad effetto, esito di una sintesi eccessiva che spesso porta a
privilegiare il dato per scontato e l'implicito.
La seconda conseguenza, purtroppo, va invece a toccare le prove dei tre attori. Privi di
dialoghi davvero consistenti e ridotti a pronunciare motti e slogan poco più che telegrafici, gli
interpreti vedono frenate le loro potenzialità. Poco fanno gli occhioni quasi sempre sgranati di
Maguire. Chris Cooper, che sfoggia un'abilità un poco di maniera, attraversa il film come
un'inconsapevole copia dell' uomo che sussurrava ai cavalli. A superare la prova e a reggere
buona parte del film c'è però un Jeff Bridges dalla presenza e fisicità solidissime, che
attraversa la storia con profonda sensibilità e una piccola dose d'ironia.
A salvare - almeno in parte - Seabiscuit è il tono d'accorata partecipazione e l'ispirata
adesione al fiducioso ideale promosso ("Non scarti una vita intera per qualche difettuccio",
insegna il saggio Smith); ed è un peccato che lo stile di Gary Ross si mantenga sempre così
rigorosamente frenato, un po' monocorde, tanto da trasformare splendide vedute autunnali in
paesaggi da cartolina. Giovava a Pleasantiville, il film che il regista ha girato nel 1998,
perchè in quel caso faceva ironia sul mondo stucchevole della finzione televisiva. Seabiscuit
si presenta invece come una storia vera; e il desiderio di piacere è sempre una guida bifronte.
Ross avrebbe potuto osare di più.
Promosse comunque a pieni voti la fotografia e la colonna sonora; quest'ultima convenzionale
anch'essa, ma utile a smuovere davvero l'emozione in un film che è sì formalmene inattaccabile,
eppure carente nel vigore.
Apprezzabile il finale, con la soggettiva della pista dell'ippodromo in cui Seabiscuit ha
appena vinto: la strada aperta verso quel "futuro" di cui nel film tanto parla il lungimirante
Charles Howard. Alessandro Bizzotto
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