La 25° ora

Avete presente quei lunghi brividi che a volte scorrono per tutto il corpo fino ad arrivare al cervello e che, dopo aver attraversato lentamente ogni nostra fibra, scompaiono, ritirandosi lenti fino ad obliarsi? Non sconvolgono, non provocano reazioni clamorose, ma il loro ricordo e le sensazioni ad essi legati perdurano a lungo nella nostra mente e non svanisce mai completamente… Lo stesso può dirsi dell'ultimo e bellissimo film di Spike Lee, La 25° ora, un film denso, pregno di significati e rimandi che penetra piano piano sotto pelle, s'insinua sottilmente dentro la nostra testa e suscita impressioni che non evaporano una volta terminata la visione, ma restano a lungo.
La 25° ora è un'opera che reca fortemente impresso il marchio di fabbrica del suo autore, ma allo stesso tempo differisce in molti punti dalle sue realizzazioni precedenti, a partire dal fatto che questo è un film di bianchi, recitato, ambientato e vissuto dai bianchi, che non s'incentra sui conflitti etnici o razziali, come ad esempio Do the right thing. Proprio al film dell'1989 è possibile comparare la storia dello spacciatore Monty Brogan a poche ore dal carcere per capire l'evoluzione e, perché no, la maturazione di Lee compiuta con quest'ultimo lavoro. Innanzitutto entrambe le vicende si svolgono in ventiquattro ore, una giornata al termine della quale nulla sarà più lo stesso, i rapporti fra i personaggi s'incrineranno per sempre, o in ogni caso inevitabilmente. La differenza sta nel fatto che nella giornata di Monty la maggior parte delle crisi è già accaduta ed è come assistere all'attimo di quiete appena "dopo" la tempesta, quando il tuono ha già squarciato il cielo e nulla sembra più aver suono. La scelta morale è già stata fatta sia dal protagonista che dai suoi amici e le conseguenze iniziano ora a farsi sentire, non stiamo per assistere allo scoppio di qualcosa come nel caso di Mookie in Fa' la cosa giusta, qui stiamo annaspando fuori dalle ceneri del crollo di Monty e di New York stessa. Sì, perché la regia di Spike Lee ed il copione di David Benioff, autore anche del romanzo da cui è tratto il film, non sono incentrati solo sul dramma e sul tormento individuale del trafficante dal viso d'adolescente, indugia anche, con sofferta partecipazione, su New York City, in particolare sul tetro deserto di macerie di Ground Zero, silente protagonista in una delle scene più belle, toccanti e realistiche dell'intero film, quella del dialogo, col cuore in mano, tra Frank e Jacob sul futuro della loro amicizia per Monty. Tagliente è l'analogia fra la desolazione delle fondamenta del WTC ed il funereo futuro del loro più caro amico, ed estremamente realistico è il ritratto dei due personaggi, che alla fine sono due newyorchesi che realizzano d'essere impotenti di fronte al cambiamento, qualunque esso sia. L'impatto è scioccante non solo perché mai prima d'ora era stato usato Ground Zero come set cinematografico, ma anche perché Spike Lee ha deliberatamente scelto di non celare i segni della ferita dell'11/9, ma anzi ha preferito esplicitarli sia visivamente che a parole, optando per una parziale riscrittura della sceneggiatura, che era già ultimata prima degli attacchi terroristici. Un atto di coraggio, questo, che allo stesso tempo rappresenta una chiara presa di coscienza di quello che è stato e quindi una sua "metabolizzazione", senza rabbia, né astio o altro. Il passato è passato, si tratta di accettarlo o di farla finita: lo stesso vale per Brogan, ed è lui stesso il primo, e forse l'unico, a capire realmente che è finita e soprattutto che, se c'è un colpevole, questi non può che essere altrui che egli stesso. E' amarissima conclusione alla quale giunge il formidabile Norton al termine della scena più tipicamente black, più smaccatamente alla Spike Lee: il cinico ed infuocato monologo a tempo di rap nel bagno del bar di suo padre. Una lunga serie d'insulti sparati a raffica contro tutti e tutto, persino contro amici e parenti, persino contro NY, persino, infine, contro se stesso, un discorso che già si trovava nel libro da cui il film è tratto ma che tanto ricorda quello di Sal-Danny Aiello in Fa' la cosa giusta. Si tratta di una sequenza secca, dura, tirata, ottimizzata dalla superba prova di Edward Norton che per tutta la pellicola riesce a trasmettere le vulnerabilità e la durezza del suo personaggio rendendole credibili, ma stupefacente è che ogni attore è spettacolare, solido perfettamente adoperato.In modo particolare emerge un Barry Pepper in stato di grazia che delinea con carisma e sicurezza un booker di Wall Street cinico e materialista, uno squalo che forse non è migliore di Monty, ma che a differenza sua ha scelto di combattere in un'"arena" più accettabile e all'interno della legalità , e che però nella straziante scena che precede l'onirico finale riesce a mostrare realmente il suo attaccamento verso l'amico braccato dal tempo.
Dolorosamente tenero è, invece, Jacob, represso e timido insegnante alle prese con un'insana passione per una sua giovane alunna, diabolicamente intrigante e tentatrice, che nonostante sia l'unico nato con i soldi e con tutti i requisiti dell'american dream, si trova a diventare il vero outsider. Una nota di merito anche per l'intenso Brian Cox, nel ruolo del padre di Monty, che colpisce dritto al cuore lo spettatore con il bellissimo ed accorato monologo finale. Un cast formidabile, insomma, non solo nelle individualità ma soprattutto nelle sequenze d'insieme, dove nessuno, nemmeno l'inseparabile mastino di Monty, è fuori luogo o sottotono. Sotto moltissimi punti d'analisi, quindi, abbiamo a che fare con un film compatto, unitario, senza cadute di stile o di tensione drammatica, nonostante le numerose ellissi e l'esplicita scelta di enfatizzare l'atmosfera più che la trama. Tutte caratteristiche, queste, che, abbinate alla malinconia di Spike Lee, contribuiscono ad ingigantire la potenza e la capacità di commuovere de La 25° ora, una pellicola che, sebbene tratti di un singolo dramma individuale, gode, tuttavia, di un forte senso d'universalità.
In conclusione due lodi, che vanno una all'ottima fotografia di Rodrigo Prieto, capace di rendere gelido e meraviglioso il nuovo volto di New York ed una al perfetto lavoro in sede di montaggio per quanto riguarda soprattutto i frequenti flashback che, in modo del tutto inaspettato, non solo ricostruiscono il passato, la storia di Monty, ma in particolare danno, allo spettatore, accesso alla mente del protagonista, cosicché da comprendere meglio la figura e l'animo di questo.
Attraverso la discesa agli inferi del suo protagonista, quindi, Spike Lee riesce a produrre un'elegia per la sua città che, al contrario di Montgomery Brogan, risorgerà, col tempo, dalle sue ceneri…


Marta Ravasio

La 25° ora

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