Le quattro piume
Suoni ovattati e un'evanescenza mobile. L'inquadratura nuota incerta in un lucore non nitido. Poi, con uno scarto sonoro ad effetto, la scena a fuoco: una partita di rugby, giocata così come si faceva più di un secolo fa, senza protezioni e con deciso vigore, dai giovani ufficiali cadetti di Sua Maestà britannica.
Sono immagini potenti e duramente solenni ad aprire "Le quattro piume" di Shekhar Kapur. Ed è un peccato che dopo poco il film inizi a scivolare verso il confuso e il risaputo, rischiando di sfiorare la banalità.
La storia, già portata sugli schermi cinque volte, non brilla per credibilità, sebbene respiri la tradizione epico kolossal della storia coloniale: un giovane ufficiale, dopo aver ricevuto quattro piume bianche, segno di codardia, per aver abbandonato l'esercito inglese alla vigilia della partenza per il Sudan, segue in incognito la spedizione per dimostrare, agli altri e a se stesso, di possedere valore e coraggio.
Un confronto con Elizabeth, il film del regista pakistano che nel '99 ricevette sette nomination agli Oscar, sarebbe ingeneroso e forse scorretto. Kapur si riconferma un grande narratore: la sua regia è dinamica, sempre salda nel suo corposo vigore. La scena del ballo è di un'eleganza fascinosa e regale, ripresa con grazia sicura; quella della battaglia nel deserto è trascinante e visivamente notevole. E di certo il film deve molto ad una fotografia luminosa e limpida, che lo inonda di forti fasci di luce.
Ma poco può tutto questo di fronte ad una sceneggiatura tanto forzata.
Il racconto procede a sobbalzi, brusche virate che sacrificano la limpidezza dell'intreccio, e l'effetto è quello poco gradevole del collage, con scene sconnesse, dialoghi innaturali e qualche pretenzioso momento dal retrogusto paradossale.
Così, pur in una decorosissima confezione, la storia non scorre e incespica, attraversata da personaggi rozzamente modellati e creati con mano frettolosa e distratta. Nemmeno gli interpreti riescono a salvare il salvabile, stando al gioco con coraggio, ma senza brillare.
Alla fine diventa quasi impossibile non rimpiangere Elizabeth e, davanti al sorriso poco convinto di Kate Hudson, non ripensare con nostalgia allo sguardo abbagliante e alla presenza scenica di Cate Blanchett.
Alessandro Bizzotto
|
Vai alla scheda del film
|