Hulk

Dr. Banner e Mr. Hulk

Ha davvero ragione l'omone verde a gonfiarsi di rabbia se il suo arrivo sugli schermi italiani deve essere accolto puntualmente dagli spropositi e le stroncature di tutti coloro che si sono sorbiti per mesi il pot-pourri di effetti digitali concentrati con sottofondo heavy metal che fa da trailer a Hulk: una sequenza da video-game che non rende affatto giustizia al grande film che lo vede protagonista.
Con non poca sorpresa e mettendo da parte una buona dose di pregiudizi, infatti, dobbiamo doverosamente ammettere che Hulk non è solo un audace, quanto ambizioso, esperimento visivo, ma anche un grande universo simbolico e introspettivo in cui il regista ha saputo cogliere la psicologia dei personaggi, l'emozione e il dramma di un conflitto immane. Solo dopo aver scavato nelle tenebre dell'anima, scandagliando le oscure e remote forze che governano l'agire umano, Ang Lee ha dato fondo a risorse economiche e tecniche per far esplodere la sua creatura, uno dei personaggi Marvel più conflittuali e drammatici che i fumetti abbiano mai prodotto e una storia che la tv, nella famosa serie con protagonisti Lou Ferrigno (richiamato qui come "addetto alla sicurezza" in un cameo) e Bill Bixby, aveva saputo umanizzare con grande malinconia. Lee avita il confronto con la tanto amata serie, rapportandosi direttamente alle strisce della Marvel, la fonte principale, a cui bisogna fare riferimento se si vuole capire il film ed evitare di cadere in facili quanto mai scontati paragoni discriminatori.
Partendo direttamente dalla scelta delle inquadrature e e del ti po di riprese, di stampo fumettistico che permettono al film di mantenere il ritmo di una lettura "visiva" attenta a cogliere espressioni e atteggiamenti spesso quasi sospese, come avviene su un riquadro stampato. Un uso dello "split screen" (lo schermo diviso in più parti) che ben si adatta alla dimensione fantasy del film e che sembra fornire delle coordinate, dei riferimenti dei momenti di riflessione allo psettatore. Una "punteggiatura" visiva che mette in evidenza come una lente, i momenti cruciali della vicenda, il dramma sommerso dei protagonisti, per marcarlo incorniciandolo in finestre e rapportando i vari personaggi tra loro.
Un uso dell'inquadratura che si fa spregiudicato, sperimentale ma che riesce del difficle intento di poratre sullo schermo un fumetto come Hulk. Il più drammatico di tutti. Forse perché in sé questo personaggio contiene i conflitti più profondi e immani dell'umanità. Ed Ang Lee non fa che esplicitarli, richiamando archetipi mitici e citazioni letterarie e cinematografiche che vanno dal romanzo di Stevenson (Dr. Jakyll e Mr. Hyde) al più classico dei film fantasy (King Kong) passando per La bella (in questo caso una "bellissima" Jennifer Connelly) e la bestia e Frankenstein in cui la figura del padre-scienziato-carnefice diventa quasi, anche per la grande performance di Nick Nolte, dominante (e sicuramente più interessante) rispetto alla "vittima" Hulk.
Ma il film raggiunge anche dimensioni più profonde, quindi diversi livelli di lettura, attraverso riferimenti alla spicanalisi che porta alla luce problematiche fondamentali (in parte desunte dal fumetto, in parte maturate in fase di sceneggiatura) quali il "raptus" omicida e i traumi infantili del protagonista. L'uomo e il male che governa dentro di lui, l'uomo e la volontà di onnipotenza, l'uomo e le sue insicurezze, il mostro che è in noi. Tutto questo è Hulk. Un contentrato di frustrazione (quando mi arrabbio, mi piace), di umanità e dolore che Ang Lee lascia maturare e sviluppare nel corso della prima parte del film, molto riflessiva, contenuta nelle espressioni (non molto acute, a dire il vero) di Bruce Banner/Erik Bana, per poi farla esplodere, nella seconda parte, attraverso il suo protagonista, in un accelerazione spazio-temporale che si contrae fino a collassare definitivamente nello scontro padre-figlio finale. Ma al di là della semplice sperimentazione o manipolazione digitale, quale può apparire ad una prima, distratta visione, questo film, bisogna sottolineare come tale complesso reticolo di riferimenti cromatici (il verde sulla sciarpa, la giacca il ciondolo di Betty, colore della rabbia ma anche della speranza) luminosi e musicali in realtà rimanda continuamente a significati reconditi e a metafore rivelatrici dell'inconscio, dell'emotività e dei più intimi pertugi dell'animo umano.
Ogni inquadratura, infatti, testimonia un incredibile uso del colore (mai come stavolta indicativo di psiche e fonte di profonda indagine) della luce e delle coordinate spaziali; elementi formali che danno valore e significato a tematiche complesse (il rapporto padre-figlio, le conseguenze della sperimentazione genetica, il male radicato nell'umanità) e di grande impatto sull'attualità. Un crescendo ben coordinato e tenuto insieme dalle splendidee orecchiabilissime musiche di Danny Elfman (una autentica garanzia nel campo del film fantasy e non solo; vedi Batman - Il ritorno, Spider-Man, Mission Impossible...), che realizza un accompagnamento memore delle tragiche e toccanti musiche composte nel 1990 per Darkman.
Hulk, infine, è un film in cui il digitale, per quanto dirompente, audace ed azzardato (e proprio per questo) trova una sua giustificazione ed esaltazione nel dare "corpo" alla visonarietà dell'interiorità umana. Basti osservare il processo attraverso cui i paesaggi spirituali vengono esteriorizzati mentre quelli paesaggi "reali" vengono interiorizzati, attraverso influenze artistiche che vanno dal surrealismo di Dalì ("Vietato sporgersi dentro" si intitolava inizialmente Un Chien Andalou dell'amico Bunuel) alla metafisica di De Chirico (lo stesso scenografo Rick Heinrichs ha dichiarato di essersi ispirato ai suoi paesaggi per il quartiere e la casa di Bruce) per dare "forma" ad immagini della mente e dell'inconscio, scavando nel profondo, nell'irrazionale, nella rabbia, dove l'io diventa Hulk...


Ottavia Da Re

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