Ken Park
Larry Clark è tornato. Il regista che ha fatto del disagio e della devianza dei giovani statunitensi l'oggetto della sua arte è tornato con una nuova opera scioccante, provocatoria, eccessiva e sconvolgente che è stata molto ben accolta dai pochi eletti che hanno avuto la possibilità di vederlo in Italia alla 59° Mostra del Cinema di Venezia lo scorso settembre. E proprio il nostro paese è stato tra quelli che hanno rischiato di non aver distribuita la pellicola a causa dei notevoli tagli coi quali la censura avrebbe potuto ridurre un film di 96 min a poco più di un cortometraggio. Fino a qui, però, nulla di nuovo dal momento che anche la precedente opera di Clark, "Bully", con le sue fortissime scene di sesso estremo, violenza fisica e verbale, abuso di droga ed alcool era andato incontro ad un destino d'oblio.
"Ken Park", però, è notevolmente diverso da "Bully". Con questo prodotto il ragazzo terribile da Tulsa ha creato qualcosa di nuovo e, perché no, di migliore, connotato da una violenza visiva meno esplicita e da una concentrazione totale sul sesso visto allo stesso tempo come sbocco delle devianze giovanili e come cancello sull'età adulta. I ragazzi protagonisti della pellicola sono tutti alle prese con la tematica sessuale, ma per ognuno è qualcosa di personale che pur essendo più o meno presente nella sua vita ricopre un ruolo di assoluta rilevanza, poiché svolge una funzione unificante fra le varie storie, legando fra loro i personaggi. Costoro sono tutti inseriti in sistemi familiari al limite del delirio, nei quali la loro persona viene sempre negata, lasciata se stessa in balia delle insicurezze e delle paure atroci tipiche dell'adolescenza e tutti profusi nel medesimo sforzo di diventare adulti onorando il necessario rito di iniziazione: l'atto sessuale. Il sesso, quindi, diventa per loro passatempo, svago, piacere, sfogo, divertimento e così via, rivelandosi il nuovo "gioco" di questi ex-bambini quasi-adulti. In ciò consiste, a mio parere, la forza del film, ovvero nell'aver saputo scegliere e rappresentare un unico ambito in grado di fungere da catalizzatore di tutte le manifestazioni del mal di vivere dei giovani protagonisti californiani. Ne deriva un film compatto, unitario, tendenzialmente caratterizzato da un movimento centripeto che impedisce le sfilacciature notate in altri film dello stesso regista, dove un turbinio di elementi eterogenei rendeva difficoltosa la messa a fuoco del tema principale. La violenza a cui eravamo stati abituati non trova qui il solito spazio, così come l'ossessionante attenzione per i dettagli "anatomici" che seppur presenti in largo numero sono quasi sempre funzionali alla narrazione e scevri da intenzioni voyeristiche. Esula da questa considerazione solo l'episodio di Tate, un ragazzo chiuso, insofferente all'amore alla naftalina dimostratogli dai suoi noiosissimi nonni che lui deciderà di uccidere e che vive nel suo mondo fatto di foto raccapriccianti e masturbazione - elemento che il regista non manca di sottolineare con sguaiate ed inutili inquadrature superravvicinate- . Si tratta probabilmente della parte meno riuscita del film, poiché pare estranea al resto della storia e della dinamica narrativa.
Nonostante questo, però, "Ken Park" resta un'opera che sciocca, affascina e costringe ad oltrepassare la nitidezza della fotografia di Ed Lachman per impattare una sostanza assolutamente magmatica e confusa , quella cioè dell'emotività da cui si genera la Persona in seguito schiacciata dall'individuo sociale. Un film da vedere, insomma, per riscoprire ancora una volta quanto sia efficacie la crudezza visiva di Clark per obbligare alla presa di coscienza della condizione di disagio in cui versano molti adolescenti oggi.
Marta Ravasio
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