Ren Min Gong Che (Public Toilet)
"Quello dei maiali!" si sente rispondere dal fondo della fila, quando qualcuno in coda per "Public Toilet", durante la Mostra del Cinema di Venezia, chiede le "credenziali" del regista Fruit Chan. Eh già, perché pure l'anno scorso (e due anni fa...) il regista cinese aveva presenziato alla Mostra, solleticando le papille gustative del pubblico veneziano con "Hollywood, Hong Kong" che aveva finito per essere ricordato dai più cinefili solo grazie ad una scena di suini. Probabilmente non soddisfatto dell'impressione suscitata nel 2001, Fruit Chan si è voluto assicurare di rimanere indelebilmente "stampato" nelle menti e negli stomaci degli spettatori affondando la macchina da presa nel piscio.
Non si tratta di una metafora per descrivere un "cesso di film" (qual'è effettivamente questo) ma del vero procedimento tecnico che sta alla base delle inquadrature e del movimento della mdp in "Public Toilet". Proprio così. Un'ora e quarantasei minuti di latrine, fiumi di piscio e filosofia della purificazione. Con lo scorrere dell'urina e delle immagini cerchiamo di aggrapparci a tutto e, per miracolo, ci viene in mente un altro cesso, quel "public urinal" in cui Terrence Hill intrattiene a suon di sibili un ferroviere per rubare un treno in "Il mio nome è nessuno"di Tonino Valerii. Per un po' restiamo a galla trovando un diversivo (al confronto un capolavoro) alla visione di questo disgustoso, noioso e pallosissimo film. Ma il "Dio del gabinetto", chiamato così perché nato proprio in un cesso, ci perseguita, ci incalza con le sue teorie di "liberazione", "pulizia dell'anima", "ritorno alla primordialità" in nome dell'amato vespasiano e allora affondiamo nel liquido organico.
Un vero incubo. Con tanto di groviglio indistricabile di storie che finiscono tutte sempre e inevitabilmente lì. I conati si sprecano, gli sbadigli pure ma il liquido giallo continua a innondare lo schermo, ad essere bevuto (purtroppo anche questo) e scaricato.
Un film che neppure nella provocazione (fin troppo gratuita) trova una traccia di significato, una vicenda insensata e un tentativo di grottesco che vira nello squallore più misero. Inutile.
Vabbe' le metafore, vabbe' la visionarietà, ma qui si tratta di cessi e questo, senza complimenti, è un cesso di film. Anzi, un film-discarica, dove Fruit Chan sembra buttare tutto, anche quella creatività che gli riconoscono in tanti. Se non voleva essere dimenticato (dopo tre anni consecutivi a Venezia è comunque difficile) ha sicuramente trovato il modo per essere ricordato. L'anno prossimo, alla Mostra sentiremo inevitabilmente urlare "Quello del cesso!".
Contento lui...
A noi non resta che tirare la catena.
Ottavia Da Re
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