One Hour Photo
Il film dell'esordiente Mark Romanek punta lo sguardo sulla non-vita di Sy Parrish (Robin Williams) un anonimo e grigio sviluppatore di foto di un grande magazzino, un'esistenza fatta di abitudini, in una solitudine assoluta. L'affetto per una gentile cliente, la dolce Nina (Connie Nielsen) lo porta ad idealizzare la sua famiglia di cui egli si appropria lentamente, attraverso foto rubate da anni di sviluppi. Nella sua mente immagina di farne parte, di condividerne i momenti d'amore che lui non ha mai conosciuto nel suo arido vissuto. Un quadretto perfetto, il suo angolo di felicità, un universo che ricostruisce nella parete di casa in un allucinante mosaico di frammenti di vita altrui. Un disperato bisogno d'affetto che si tramuta in ossessione e, quando l'immagine idilliaca della "sua" famiglia cade in pezzi, per la scoperta di un tradimento del marito, "lo zio Sy" si sente in dovere di intervenire...
Un film spietato, girato in modo freddo ma sconvolgente, realizzato con un approccio implicito, senza mai dire, spiegare, urlare il dramma umano del protagonista, un mostruoso Robin Williams, finalmente libero dalle movenze clownesche che sembravano averlo incastrato nel limbo dei "buoni a tutti i costi". Una performance rigorosa, glaciale, terrificante, senza mai una smorfia o un'espressione forzata. Dimenticatevi Patch Adams e sprofondate nel pallore agghiacciante di una larva umana senza spasmi, né tremori isterici, contenitore apparentemente anonimo di una tragedia completamente interiorizzata, trattenuta nell'iter maniacale di un lavoro rigoroso, nei gesti simmetrici e composti ma mai banali. La solitudine dell'individuo, le sue ossessioni covate, l'indifferenza di una società arida e conformata quanto gli scaffali del centro commerciale in cui acquista e consuma beni, sono tutte in quella faccia, nei suoi movimenti esasperatamente rallentati, nella camminata rigida e bloccata. Una presenza che s'intona perfettamente all'allestimento scenico, con una fotografia agghiacciante ma bellissima (Jeff Cronenweth) a cui Mark Romanek affida il ruolo di amplificare e esprimere l'inquietudine umana e il vuoto desolante della realtà. Il bianco accecante del laboratorio, il grigiore spento dell'appartamento di Sy, le luci artificiali del centro, gridano più di mille lacrime e comunicano allo spettatore un'inquietudine profonda. Un cinema che ricorda Michael Mann, una freddezza quasi astratta eppure silenziosamente spietata. Una potenzialità che va oltre la storia, e che, attraverso la forza della visone e dello sguardo che si impossessano della realtà, porta alla luce interrogativi meta cinematografici, sulla possibilità del cinema di carpire l'anima di ciò che rappresenta.
Un film senza peripezie e risvolti sconvolgenti, costruito su una sceneggiatura molto lineare, che proprio attraverso la graduale dilatazione di un'apparente normalità, trova la chiave spietatamente tragica della narrazione. A dimostrazione che la più atroce tragedia umana rimane spesso celata fra le piaghe della terrificante quotidianità, covando nel silenzio, la sua anonima putrefazione.
Ottavia Da Re
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