Gangs of New York
Martin Scorsese ha analizzato spesso i meccanismi che regolano le relazioni fra gruppi. A modo
suo e con tutte le differenze del caso, anche con Gangs of New York svolge un'operazione già cara
a Robert Altman. Ma mentre quest'ultimo ha sempre privilegiato i rapporti fra individui,
lavorando a livello microsociologico, Scorsese adotta una visione macro: illustra le regole che
la società costruita dai singoli impone e ha imposto loro.
Soprattutto per questo Gangs of New York può essere accostato a L'età dell'innocenza, il
capolavoro che il regista italo-americano realizzò nel 1993, per formare un ideale dittico. Il
sontuoso apologo in costume tratto dal romanzo di Edith Wharton scandagliava con lucida
consapevolezza i ferrei dettami dell'etichetta nell'alta società borghese della New York del 1860,
spietata con chi tentava di infrangerne le norme. Questo nuovo film, nato da un'idea di Jay Cocks
(già co-sceneggiatore de L'età dell'innocenza e qui nelle stesse vesti insieme a Steven Zaillian
e Kenneth Lonergan), ritrae con passione quasi documentaristica la struttura gerarchica e
l'insieme dei ruoli dell'altra faccia della Grande Mela di due secoli fa: i sobborghi e i
quartieri più poveri, che trovano efficace prototipo nel quartiere -oggi scomparso- di Five
Points. E in questo caso la forma, il bon-ton che in L'età dell'innocenza rivestiva i
rituali della tribù benestante, scompare, svelando tutta la cruda essenza di quelle leggi.
Sono trascorsi sedici anni da quando Amsterdam Vallon ha assistito alla morte di suo padre,
capo del clan degli immigrati irlandesi, per mano del leader della fazione anti-immigrazione Bill
"il macellaio" Cutting. Il motivo per cui torna a Five Points è la vendetta.
Ma anche le vicissitudini dei personaggi servono a Scorsese per aggiungere colore al suo grande
quadro. A livello subliminale è New York con le sue lotte tra gang a emergere, svincolandosi
dalla semplice funzione di scenario/sfondo. Sono al contrario i personaggi (Amsterdam, il
macellaio, la borseggiatrice Jenny...) a servire soprattutto come dettagli della grande
illustrazione, di cui sono parte perfettamente integrata, così come le singole persone danno vita
al sistema sociale.
E la continuità con L'età dell'innocenza è sigillata anche dal ritorno sul set di Scorsese di
Daniel Day-Lewis, che si cala con sorprendente mimetismo nelle vesti di Bill "il macellaio";
entrambi i suoi personaggi nei due film possiedono una consapevolezza perfetta delle regole di
ingroup-outgroup, ma se Newland Archer (l'avvocato che interpreta nel film del'93) ne è in
qualche modo vittima impotente, Bill ne è simbolo conservatore. E speculari sotto molti
punti di vista sono anche la contessa Olenska di Michelle Pfeiffer, inesperta nella sua
innocenza, e la Jenny di Cameron Diaz, cresciuta in un sistema che ben conosce e che non tenta
di cambiare.
La potenza scenografica dell'intera opera ha soprattutto intenti di fedeltà storica. Dante
Ferretti ha prodigiosamente ricostruito New York a Cinecittà (dove il film è stato interamente
girato in 137 giorni di lavorazione) e la costumista Sandy Powell ha svolto numerose ricerche per
allontanare gli abiti femminili dalla silhouette vittoriana e renderli più credibili.
E New York non abbandona mai il primo piano. Persino il disperato duello finale annega nel
disordine dei "Draft Riots", gli scontri che infiammarono la città nel 1863 a seguito della
chiamata alle armi obbligatoria istituita dal presidente Lincoln.
Forse è anche per questo che il coinvolgimento emotivo non risulta immediato. Ma uno sguardo di
Scorsese ci dice più di mille scivoloni in fantasy ed effetti digitali.
Alessandro Bizzotto
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