“Ho conosciuto Dean poco dopo la morte di mio padre….”
Inizia così la versione su celluloide di "On The Road" ad opera di Walter Salles: un incipit che denota da subito la natura ambigua ed ambivalente della pellicola, sospesa tra la trasposizione del libro pubblicato nel ’59 e quella del “rotolo” originale, a sua volta una crasi simbiotica tra il vissuto e la finzione, tra Jack e Sal. Il tutto con forti innesti del reale, del non detto dai libri della Beat Generation, preziosamente consegnato ai posteri dalla viva voce dei protagonisti di quelle storie o dai loro eredi.
La scrittura debordante, lirica, opulenta ed esagerata di Kerouac ha convinto gli sceneggiatori che l’originalità del libro risiedesse soprattutto nella coesistenza tra ciò che è stato esperito e quanto, invece, è folle immaginazione letteraria, permettendo di trascendere il mero racconto documentaristico. L’attenzione è posta sull’idea di un gruppo di giovani che vivono secondo un sentire e delle esigenze tutte loro: un terzetto che percorre il viaggio dalla gioventù all’età adulta, alla ricerca di tutta la libertà possibile che gli era stata negata e che, facendolo, automaticamente espande la frontiera della cultura nel secondo dopoguerra conservatore americano, senza sapere che avrebbero cambiato tutto e per tutti coloro che li avrebbero seguiti (o letti). "On The Road" di Walter Salles, esploso all’attenzione del grande pubblico grazie a “I Diari della motocicletta”, si propone, quindi, non come film sulla Beat Generation, bensì come lavoro sull’epoca formativa di quella generazione, su ciò che l'ha preceduta e scatenata.
Sarebbe inesatto sia da un punto di vista letterario che da un punto di vista storico, aspettarsi un film manifesto, un inno alla follia e all’esaltazione del Beat, perché "On The Road" è un testo che racconta di quando l’agitazione culturale e la presa di coscienza erano in gestazione, secondo lo stesso schema de I Diari, dove si narrava l’inizio di un risveglio politico, sociale e storico attraverso le scoperte geografiche e spirituali di Ernesto Guevara.
A questo spirito ed a quell’epoca il film resta fedele ed in ciò sta, a mio parere, la chiave di lettura dell’intera pellicola, che rivela una scelta molto precisa e, come tale, degna di interesse per la sua onesta coerenza.
A proposito di fedeltà, inoltre, è doveroso avvisare subito i puristi ed i fondamentalisti letterari che il plot, nonostante i suoi 137 minuti, affronta solo l’itinerario del primo viaggio compiuto da Jack/Sal Paradise, non tutte le vicissitudini raccolte nel Paragrafo fiume.
Gli umori, le delusioni e le efferatezze emotive quanto intellettuali, trovano corpo sul grande schermo con un andamento del tutto speculare a quello del libro, con tempi morti alternati ad accelerazioni e svolte, lirismi poetici e paesaggistici contrapposti ad abbuffate di vita e di musica che rispecchia la costante dicotomia e compenetrazione di contemplazione ed urgenza generazionale ed espressiva. In questo senso, è pregevole il montaggio di Francois Gediger (Gabrielle, Intimacy; Dancer In The Dark) che permette di apprezzare quest’alternanza, prediligendo, tuttavia, un incedere piuttosto riflessivo, sposandosi magnificamente con la rarefatta e prodigiosa fotografia di Eric Gautier (Aprés Mai, Into the Wild, I Diari della Motocicletta, Intimacy). Perché non bisogna dimenticare che, come nelle sue precedenti opere, Salles fa, ancora una volta fedele a Kerouac, della strada e degli spazi un vero e proprio personaggio.
Geografia fisica e geografia spirituale si permeano reciprocamente diventando la mappatura emotiva dei personaggi: il contrasto tra il west e la frontiera, la fine della strada e l’addentrarsi verso l’ignoto. la lunga marcia verso l’ovest – sogno americano e frontiera stessa per eccellenza – è finita, il sogno inizia ad incrinarsi, è l’inizio della fine e dello stravolgimento di un’era di immobilismo culturale e sociale.
L’interesse è rappresentare i desideri dei protagonisti di svelare l’ignoto ed allo stesso tempo i loro conflitti interiori, lo slancio vitale e l’aspra disillusione di chi ha visto oltre il velo, oltre i brandelli di un “altrove” che non c’è più. Perché arriva il momento in cui tutto è stato detto, fatto, visto ed esperito. C’è il ritorno a casa e l’appiattimento sul reale. Il viaggio ricomincia e finisce, la ricerca del padre come del propri confini si rivela l filo conduttore, irrisolto, di vite intere, l’amicizia si spezza, ma l’eco della conclusione è uno solo, forte e chiaro: un ricordo della presenza perenne di Dean/Neal, il Vento dell’Ovest, il motore, l’ispiratore ed il catalizzatore di tutto, il cui viaggio, sulla strada, lungo i binari, chiude i titoli di coda.
L’ultima di una lunga serie di fotografie iconiche a cui è impossibile non tornare quando si pensa alle personalità coinvolte in "On The Road". Tuttavia soffermarsi su di esse sarebbe fuorviante perché i protagonisti vi sono ritratti con la consapevolezza spirituale ed intellettuale acquisita con il completamento dei loro viaggi e non sono più alla ricerca di ciò che sarebbero diventati. In quest’ottica gioca un ruolo fondamentale il cast al servizio di Salles, un ensamble di volti noti e più che noti che si rende meritevole di prove efficaci ed ispirate. Garret Hedlund (Troy, Tron) presta il sorriso beffardo, la spiazzante prestanza fisica ed il fondo triste delle sue iridi color del cielo a quella magnetica testa calda che è Dean Moriary, il contraltare dinamico dell’io narrante Sal Paradiso, interpretato dal pacato Sam Riley (Control), convincente ma mai in grado di rubargli la scena. Un passo indietro per minutaggio ma non certo per bravura il tenero e vulcanico Carlo Marx, interpretato da Tom Sturrige (I Love Radio Rock) ed il cupo, folle guru della tossicodipendenza, Old Bull Lee, solidamente incarnato da Viggo Mortensen (Il Signore degli Anelli, History of Violence, Promessa dell’Assassino, The Road, Appaloosa). Ottime anche le parti femminili, in particolare l’emancipata e voracemente vitale MaryLou, un’accaldata e disincantata Kristen Stewart (Into the Wild, The Twilight Saga, The Runaways) ed un’impressionante Amy Adams (The Master, The Fighter, Il Dubbio) nel ruolo di Jane, alias Joan Vollmer, moglie di Burroughs, che regala un cameo in grado di adombrare la quasi sempre troppo evanescente Kirsten Dunst (Marie Antoinette, Melancholia), qui nei panni di Camille, seconda moglie di Dean.
Da annoverare tra i comprimari, inoltre, ci sarebbero anche la Hudson, l’auto con cui il terzetto attraversa da un capo all’altro gli Stati Uniti, un po’ come lo era stato la Poderosa ne I Diari, e la Musica, intesa non soltano come colonna sonora, qui supervisionata ed arricchita dalla sapienza di Gustavo Santaoalla (Brokeback Mountain, Babel, Into the Wild, I Diari della Motocicletta), ma anche e soprattutto intesa come il Jazz ed il Blues che hanno dato il battito da un’intera epoca.
Il confronto con un testo, quello di Kerouac, talmente epocale da esser divenuto il manifesto per intere generazioni, se non ha scoraggiato Walter Salles da un punto di vista tecnico e di ricerca, lo ha senza dubbio imbrigliato in senso stilistico, dal momento che il suo "On The Road" è più concentrato sull’onestà e sulla fedeltà al libro che non alla scelta di un linguaggio filmico che abbia una maggior presa sullo spettatore. Si corre con i protagonisti sulle strade ghiacchiate o arroventate dal sole, seguendo lo srotolarsi di quell’unico paragrafo di trentasei metri, però i battiti che arrivano al cuore sono pochi. Davvero pochi.
Curiosità:
Alla fine degli anni 70, Francis Ford Coppola, detentore dei diritti di "On The Road", avrebbe proposto a Jean-Luc Godard di realizzare il film ma il progetto non ebbe mai seguito.
On the road soundtrack (2012) - Jack Kerouac "Reads On The Road" ("Home I'll Never Be"): http://youtu.be/bt6ox-KK57Y