Quando l’amore brucia l’anima - Walk The Line
Johnny Cash è un’autentica leggenda della musica popolare americana degli ultimi cinquant’anni. Dotato di un timbro vocale tanto profondo da riuscire a scavare i più oscuri recessi dell’animo umano, sapeva smuovere la coscienza dell’americano medio attraverso i temi a lui più cari delle sue dolorose canzoni. Il “Man in Black”, così ribattezzato per il suo singolare modo di vestire che non mancava però di sottolineare ulteriormente la sua carismatica personalità anche fuori dal palco; era capace di parlare in modo diretto ed inequivocabile a tutta quella parte di cultura popolare, dalla quale egli stesso proveniva e alla quale non ha mai smesso di sentirsi parte. Come gli oppressi o gli indesiderati, dai quali attingeva e per i quali cantava i suoi testi spesso crudi e taglienti, stralci di vita vissuta sovente in prima persona. Capace di alternare, nelle sue ballate, la malinconia alla gioia ed argomenti come la morte, il peccato o l’inganno, all’amore, allo spirito religioso ed alla famiglia; con la rabbia di un assassino o la delicatezza di una preghiera.
Partito dall’ambito della musica country, pur rifiutandone la steel guitar, strumento principe di questo genere tipicamente a stelle e strisce, ha inventato il celeberrimo boom-chicka-boom che caratterizza il travolgente ritmo delle sue canzoni, paragonabile solamente ad un treno in corsa. E’ stato in grado come nessun’altro, prima dall’ora, di mixare insieme i generi musicali più lontani tra loro, come: rock, punk, folk, country e addirittura rap, con un tale successo da divenire un’icona per molti musicisti futuri, esponenti affermati delle differenti correnti musicali. Fu il primo a proporre dischi a tema, i cosiddetti concept album: in grado di recuperare le ballate del vecchio west, per attraversare la storia del proprio Paese o di accomunare perfettamente concezione musicale e concezione politica, tanto da risultare sempre gradito a tutti gli ambienti della controcultura americana degli ultimi quarant'anni, al di là del ceto sociale e dell’ubicazione geografica.
In Italia Johnny Cash è, nel migliore dei casi, poco più di un nome legato ad un vago concetto di musica folkloristica, nei termini in cui si pensa alle tradizioni rurali di un altro paese. Al momento però, nelle nostre sale cinematografiche, è presente “Walk The Line – Quando l’amore brucia l’anima”, pellicola firmata dal regista James Mangold (Kate & Leopold e Ragazze Interrotte), che vale davvero la pena di andare a vedere: se non altro per meglio conoscere questo controverso personaggio, che racchiude in sé molte delle contraddizioni tipiche di una nazione della quale spesso abbiamo assunto usi e costumi, senza preoccuparci di comprenderne a fondo i significati.
Mangold ci racconta un’autentica storia americana: non soltanto perché è una pellicola biografica di un cantante realmente esistito, ma perché contiene in sé proprio tutti quegli elementi cari all’american dream ed alla figura del self-made man, ma nell’accezione più umana, autentica e sofferta del termine.
Siamo dinnanzi al figlio di un mezzadro dell’Arkansas nell’epoca della grande depressione. Quando il piccolo Cash non era costretto ad aiutare i genitori nei campi di cotone, passava quanto più tempo possibile con l’orecchio teso a captare tutto ciò che di musicale passavano le stazioni radio. Diviso tra gli insegnamenti severi di un padre padrone e la dolcezza di una madre che gli ha trasmesso l’amore per la musica attraverso gli inni sacri, si troverà ben presto a fare i conti con l’incommensurabile dolore della precoce perdita del fratello maggiore: ai suoi occhi l’unico vero orgoglio e fonte di gioia per l’intera famiglia. Dovrà metabolizzare un lutto gravato dal senso di colpa. Passando attraverso la difficile autogestione di un’inaspettata quanto folgorante ascesa al successo, benché questa non sia giunta in tenera età; segnata per altro dalla devastante dipendenza da anfetamine; sino alla redenzione attraverso l’amore di una donna che diverrà l’unico vero punto fermo della sua vita.
In “Walk The Line – Quando l’amore brucia l’anima” (da notare la terrificante scelta italiana! Sacrifica il significativo titolo della canzone simbolo di Cash, espressione e massima sintesi del suo stile di vita e della sua difficilissima lotta interiore; arrivando a banalizzare il legame che lega profondamente i due protagonisti, al solo scopo di rendere più accattivante al pubblico una storia che si giudica, sulla carta, impopolare già in partenza) Mangold decide volutamente di ripercorrere quel periodo della vita di Cash che ha costituito la sua più intensa evoluzione: dalla star autodistruttiva dell’inizio della sua carriera, al cammino lungo quella linea di demarcazione che separa la distruzione dalla redenzione e che un uomo come lui è stato in grado di percorrere solo grazie al sostegno ed alla comprensione, giunti dall’amore di una donna come June Carter.
Mangold parte proprio dal concerto epocale tenutosi al carcere di massima sicurezza di Folson in California, il 13 Gennaio del 1968, dinnanzi a duemila detenuti; per dipanare la trama del suo film omaggiando uno dei massimi esponenti del cinema moderno, l’Orson Welles di Quarto Potere. Sì perché gli elementi ci sono tutti: la macchina da presa ci permette di valicare le mura cintate di un posto altrimenti per noi inaccessibile, luogo di morte e resurrezione per il protagonista, che attraverso un lungo flashback ci permette di venire a conoscenza di ciò che è stata la sua vita sino a quel momento e risolvendo, in prima persona, un doloroso trauma infantile che lo riporterà in ultima istanza, a riconciliarsi con sé stesso ed i suoi affetti più cari (possibilità che al citizen Kane di Welles non era data, visto che esalava l’ultimo respiro nella prima sequenza del film e l’aspetto, per così dire d’ indagine sul suo conto, veniva completamente affidato allo spettatore). Naturalmente il parallelismo si ferma qui.
Mangold riesce a calibrare molto bene le sequenze più drammatiche del film, alle esibizioni canore: attraverso le tappe dei primi e faticosissimi tour che videro Johnny Cash e June Carter affiancati da astri nascenti della musica americana e che divennero in seguito artisti del calibro di Elvis Presley, Jerry Lee Lewis e Waylon Jennings, solo per citarne alcuni. La regia estremamente disinvolta nel combinare molteplici punti di vista, senza mai avvalersi – con somma gioia dei nostri occhi e del nostro senso estetico – di un montaggio videoclipparo; riesce a coinvolgere direttamente lo spettatore sul palco, avvolgendo i due protagonisti che possiedono un palpabile manietismo nelle performance dal vivo. Il palcoscenico, in queste scene, diviene il luogo deputato all’azione principe del film di Mangold: restituendo al personaggio di Cash l’unica reale possibilità che ha di esprimersi tanto liberamente in vita sua. Abbiamo così modo di conoscere un capitolo della storia della musica, quando ancora non esisteva il concetto di star sistem e tutto il glamour che circonda il mondo dello spettacolo, come abbiamo modo di conoscerlo noi oggi. Si alloggiava nei motel lungo la strada, non c’erano i telefoni satellitari, a mantenere di continuo il contatto con le proprie famiglie o i grossi agenti ad organizzare ogni singolo dettaglio delle vite di questi musicisti, ponendo una barriera tra loro ed il pubblico o la stampa.
Se il film di Mangold riesce a restituirci tale atmosfera il merito va anche alla stretta e proficua collaborazione tra i vari reparti produttivi: dai costumi vintage di Arianne Phillips (Ragazze Interrotte e Il Corvo), che si avvale di numerosissimi pezzi originali per impreziosire il guardaroba dei due protagonisti; alla ricostruzione sul set, ad opera dello scenografo David Bomba (I sublimi segreti delle Ya-Ya Sister e Original Sin), di tutti quei luoghi che hanno assistito alla trasformazione pubblica e privata del cantante statunitense. Anche la fotografia di Phedon Papamichael (Sideways e The Weather Man di prossima uscita in Italia) si rivela indispensabile nel connotare i vari momenti del film: dalle calde tinte delle terre del sud, dove città come Nashville e Memphis hanno dato i natali alla musica country; ai coni di luce che illuminano le esibizioni canore di Cash, caratterizzate da un particolarissimo manierismo interpretativo e dal rutilante ritmo delle sue canzoni.
In ultima analisi non possiamo che spendere parole di elogio per le straordinarie performance dei due protagonisti: Joaquin Phoenix (Il Gladiatore e The Village) che regala sguardo, voce ed un’autentica emotività al suo Johnny Cash, e Reese Witherspoon (Vanity Fair e Pleasantville) che con precisione e disciplina affronta il proprio ruolo dimostrando tutto il carattere e la dolcezza di cui era capace June Carter. Non temono il confronto con il loro alterego realmente esistito, conferendo una profondità ed uno spessore che finisce per arricchire di umanità i passaggi più drammatici della pellicola. Capaci di un’eccellente versatilità, non si risparmiano e cantano personalmente tutti i brani presenti nel film, con un lavoro sulla voce e d’interpretazione che lascia davvero senza parole! Witherspoon e Phoenix sono il vero motore propulsore di questo film, l’energia che dona il giusto stile alla base della ricerca registica di Mangold. Forti della capacità di mantenere una costante tensione emotiva, sottolineando i cambi di registro del film, dalla quotidiana realtà precaria e drammatica del dietro le quinte, fatto di liti, alcool, droga e ambienti famigliari distrutti; alle esibizioni canore al cospetto dei numerosissimi fans, unico momento a loro concesso per ben dieci anni, dove poter vivere in pubblico il loro sentimento, che di certo non si limitava alla reciproca stima professionale.
Da citare anche il convincente cast di comprimari, su tutti l’eccellente Robert Patrick (Terminator 2 – il giorno del giudizio e Squadra 49) che ritroviamo nella figura paterna di Cash; anch’egli un uomo dalla personalità quanto mai spigolosa.
Non possiamo inoltre astenerci dal menzionare l’indispensabile apporto dato alla pellicola da parte di T Bone Burnett (che ha firmato colonne sonore come Fratello, dove sei? e Ritorno a Cold Mountain): ha supervisionato tutti i pezzi cantati da Phoenix e dalla Witherspoon, rinunciando agli effetti/all’effettistica digitale, che avrebbe stonato con gli strumenti dell’epoca utilizzati nel film e fortemente voluti dallo stesso Burnett. Inoltre ha dato vita ad uno score interamente incentrato sul suono della chitarra, attingendo e reinterpretando tre differenti melodie tratte da delle canzoni dello stesso Johnny Cash.
Effettivamente per saggiare l’anima autentica del Man in Black, si dovrebbe ascoltare la sua musica; ma pensiamo che la pellicola firmata da James Mangold possa essere un ottimo inizio per avvicinarsi al suo mondo: scandito dall’irrefrenabile ritmo delle sue canzoni, che ti fanno correre su quella linea a cavallo tra paradiso e inferno.
Ilaria Serina
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