Munich

Olimpiadi di Monaco, 5 settembre 1972. Un gruppo di atleti israeliani viene sequestrato da un manipolo di terroristi palestinesi armati e mascherati (dal quel momento chiamato “Settembre Nero”), che iniziano a decimare gli inermi e atterriti membri della delegazione prima di tentare una fuga che si concluderà in una strage annunciata nell’aeroporto della città tedesca.
Le immagini filtrano dalle tozze tv dei primi '70 di un mondo sintonizzato per seguire la pacifica festa dei giochi olimpici e trascinato improvvisamente per la prima volta nel clima di terrore mediatico che si perpetuerà fino ai nostri giorni, in un altro tragico settembre nero di morte (ricordato nel film nell'immagine finale delle Twin Towers).
La vendetta ("Vengeance" è anche il titolo del romanzo di George Jonas da cui è tratto il film) del popolo israeliano non si fa attendere e l’agente del Mossad Avner (Eric Bana) viene incaricato assieme ad altri quattro uomini, appositamente addestrati per la missione, di uccidere gli undici responsabili della strage di Monaco, in modo plateale, per dimostrare al mondo “cosa significa mettersi contro il popolo ebraico”...

Come già aveva fatto ne Il colore viola, L’impero del sole e Salvate il soldato Ryan, ma soprattutto in Schindler’s List Steven Spielberg con Munich dimostra ancora una volta di riuscire scavalcare il tendone del circo di giochi, effetti speciali e fantasmagorie dove lo vorrebbero confinato Academy & c. (non è un caso che questa sua "seria inclinazione" sia spesso ignorata in sede di Oscar), di sapersi spogliare di tecnicismi e invenzioni fantastiche, per portare in scena un cinema vero, reale, in grado di rappresentare e incarnare le paure più profonde, quelle più istintive e viscerali (su tutti Lo squalo), e quelle che la storia ha lasciato addosso all’umanità, attraverso lacerazioni e ferite ancora aperte, quelle che soggiacciono ed esplodono in Munich, come le note meravigliose di John Williams (capace di raggiungere toni davvero dolenti come in Schindler’s List) che aprono e chiudono, quasi scomparendo nel corso del film, un potente e lirico grido di dolore.
Realizzando un film coraggioso, ambizioso e allo stesso tempo umile.
Coraggioso, per un regista abituato a stupire il suo pubblico e che decide di descrivere un momento storico soprattutto attraverso i rapporti, l’intreccio, i retroscena che l’hanno caratterizzato, centellinando e calibrando l’azione, senza abusare dell’effetto drammatico della strage che dà inizio alla vicenda e al film, e che ritornerà solo in efficaci brandelli di flash back negli occhi del protagonista diventando nella sua “assenza” visiva, un dramma ancor più straziante.
Ambizioso quindi, per un film che finalmente guarda oltre il desiderio di stupefazione per scavare intimamente, logorando l’animo del protagonista e del pubblico in una riflessione oltre che universale soprattutto intima.
Ed infine umile, nella sua ammirevole, “mancata”, presa di posizione di fronte ad una dramma di immani proporzioni. E a dispetto di una critica spesso troppo sbrigativa nel ritenere questo un aspetto negativo del film, come se bastasse essere schierati, avere la famosa “verità in tasca”, per poter definire un’opera compiuta o meno, riteniamo che l’aspetto più importante e significativo di Munich sia proprio la capacità di Spielberg, regista americano ed ebreo, di mettere in campo, rinunciando a sentenziare e giudicare, tutte le meschinità che hanno caratterizzato le opposte fazioni israeliana e palestinese, la falsa demagogia e la non politica contemporanea, le reti & ragnatele di spionaggio e servizi segreti corrotti (senza lesinare stoccate e critiche a poteri e nazioni, Stati Uniti compresi) che non hanno permesso e non permettono tuttora di intravedere spiragli di pace, proprio a causa di una metastasi di immobilità, ottusità e falsa “tolleranza”.
E’ con questa sola certezza, che è anche la sua forza, che Steven Spielberg racconta con scarna durezza le conseguenze di una strage, vendicata da un manipolo di killer che diventa il mezzo attraverso il quale descrivere il processo di degenerazione e autodistruzione di un uomo, della sua anima e dell’intera umanità.
E lo fa trasfigurando lo sguardo candido e apparentemente innocente di un bravissimo Eric Bana (Avner), “mani da macellaio e animo gentile”, un attore già metamorfizzato dalle paure più ancestrali in Hulk e, suo malgrado, simbolo della più tragica umanità nel predestinato Ettore di Troy, che compie un ulteriore processo di trasformazione in questo film, facendosi carico della discesa all’inferno di Munich. Trasformandosi da giovane padre di famiglia, in messaggero di una “vendetta” che più che detronizzare platealmente i nemici del suo popolo fagociterà ogni sua emozione.
Una vicenda di grande drammaticità, quella della strage alle Olimpiadi di Monaco, e una delle prime che ebbero un grande impatto mediatico (detreminante nel film il ruolo della televisione, “schermo” attraverso il quale vengono filtrate e spesso travisate certe notizie) sulla popolazione mondiale portando nelle case di milioni di persone un attentato nei confronti del mondo, fino ad allora, inviolato dello sport, dei giochi olimpici, simbolo di fraternità e pace tra i popoli.
Grazie anche all’apporto del grande sceneggiatore Erich Roth (qui coadiuvato dall’artefice del clamoroso successo televisivo, Angels in America, Tony Kushner), Spielberg estrapola un momento storico per raccogliere l’eco di un dramma universale, utilizzando un genere di "script" che Roth ha fatto ben conoscere in film di sottile e intensa rappresentazione storico-sociale come Alì e The Insider, di Michael Mann.
L’approccio quindi è realistico, e la sua mise en scène lo testimonia in modo esemplare, attraverso una cronaca asciutta, e una scarna narrazione, con personaggi "autentici" (un esempio su tutti: l’immagine degli atleti ostaggi fisicamente poco prestanti) filtrati nella fotografia sgranata e livida del fedele Janusz Kaminski che attinge a Saving Private Ryan e a Schindler’s List, per esprimere tutta la spietata “cecità” visiva del film (emblematici in tal senso gli occhi chiusi del protagonista, ormai incapace di guardare la vetrina dove si trova esposta una cucina, simbolo del "nido" ormai perso per sempre) e dei suoi protagonisti, il cui “sguardo” è costantemente “violato” dal male e da una visione completamente deformata della realtà (si veda la scena del macabro omicidio della spia olandese e la sua "scomposizione", nella mancanza di rispetto di fronte alla morte).
Maschere quasi demoniache, di questo processo di degenerazione, i volti dei compagni di Avner, da Steve (non McQueen, ma Daniel Craig, futuro James Bond, anche se dolcevita e occhiatacce sembrano mutuate da Bullit), sguardo glaciale e irreprensibile, a Carl (Ciaràn Hinds, già in Veronica Guerin, Il fantasma dell’opera) all’artificiere, giocattolaio, Robert (Mathieu Kassovitz), che assumono via via le diverse facce della stessa sete di vendetta.
Personaggi che, ad esclusione del solito immenso Jeoffrey Rush (nel ruolo di Ephraim, viscido, intransigente e ottuso ufficiale del Mossad, guida di Avner nella missione), forse avrebbero meritato una maggiore caratterizzazione (come Hans/Hanns Zischler, il più penalizzato dei quattro) e che talvolta tendono a cedere la scena ai “retroscena” politici, oscurati come certi passaggi del film, non privo di debolezze e imperfezioni stilistiche.
Non a caso il ritmo di Munich talvolta scende pericolosamente, imbrigliato in virtuosismi legati all’arte della guerra, perdendosi in enigmatici giochi di spionaggio e politichese (non sempre certe ambiguità giovano alla suspense compromettendo la “leggibilità” del film) che fanno pesare le quasi tre ore di film, allungate da alcune divagazioni in mondi paralleli e ovattati (grazie all’uso dell'effeto "flou" a voler marcare certe immagini “sospese”) o strani "incontri ravvicinati" (abbastanza discutibile la visita alla cascina-eden con il “papà” oracolo, Michael Lonsdale, che fa tanto “architetto di Matrix”, in cui fa la sua “comparsa” anche una disorientata Valeria Bruni Tedeschi).
E rimangono ambigui e poco esplorati i riferimenti alle figure materne e paterne (il padre spesso citato ma assente, il “papà” acquisito) che pure contengono in potenza valenze simboliche di grande significato: come un latente complesso di Edipo che caratterizza il rapporto viscerale e malato tra il protagonista e la madre, la madre-terra, (forse in quest’ottica va visto il discutibile amplesso finale di Avner mentre rivede le fasi finali della strage) una patria (“la patria è tutto”, il leitmotiv dei protagonisti) che genera un legame assoluto e autodistruttivo.
Ma, al di là di queste imperfezioni, Munich rimane un film asciutto, imparziale, umile, capace di rappresentare la nostra storia, quel sangue che non è dei vincitori né dei vinti, ma rende tutti ugualmente perdenti, un dramma umano lungi dall’essere risolto e che solo attraverso la sua riflessione, nella prospettiva limpida e imparziale suggerita anche da questo film, può comprendere le ragioni della sua cieca, inutile, follia.


Ottavia Da Re

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