Truman Capote - A sangue freddo
Passeggiava all’alba per la 5th Avenue ancora in abito da sera e filo di perle e se le aveste mai confidato di avere le paturnie, vi avrebbe detto di correre subito da Tiffany. Solo se avesse trovato un posto al mondo, con la stessa atmosfera solenne e rassicurante della famosa gioielleria, avrebbe messo radici, dando finalmente un nome al gatto. Non c’era verso che si ricordasse le chiavi del portoncino, con grande disappunto del povero signor Yunioshi ed un suo fischio deciso avrebbe fermato qualunque tassista …. E con che classe! Se a questa descrizione state associando il nome dell’indimenticabile personaggio di Holly Golightly, la “matta autentica” alla quale diede vita la sapiente penna di Truman Capote, avete indovinato. Al pubblico del grande schermo è maggiormente nota con l’intramontabile grazia della sua interprete: una Audrey Hepburn quanto mai fragile e spumeggiante nella pellicola firmata nel 1961 da Blake Edwards. All’attrice però lo stesso Capote le avrebbe sempre preferito Marilyn Monroe, con il probabile dissenso planetario, a tutt’oggi, di cinefili o semplici cultori del film.
Citazione d’obbligo visto il personaggio di cui si andrà a parlare ed introduzione resa ancor più necessaria per mettere, per così dire in guardia, quanti s’apprestino alla visione del film Truman Capote – A sangue freddo, cercando più o meno consapevolmente nella figura di questo scrittore, un’eco di quella malinconia che accompagnava le note di “Moon River” o tracce di quel romanticismo che trapelava dalle pagine di Colazione da Tiffany.
Bennett Miller (qui al suo debutto come regista cinematografico, che però gli ha già fruttato due significative nominations personali all’Oscar, per il film e per la regia ), ritrae lo scrittore americano nel capitolo letterario più oscuro e tormentato della sua esistenza; che lo pose drammaticamente a confronto con sé stesso, e pur regalandogli il successo agognato, decretò al contempo la sua fine per il resto del tempo che gli rimaneva da vivere.
Negli anni cinquanta Truman Capote era un autore accreditato dalla critica e di indubbia fama. Frequentatore abituale ed esponente erudito dei salotti che contano di New York: sufficientemente eccentrico da poterglisi perdonare un’omosessualità sfacciatamente esibita, egocentrico intrattenitore di tutto quello che ben presto sarebbe divenuto il jet set della grande mela. Dopo aver abbondantemente frequentato il mondo del cinema per il quale scrisse diverse sceneggiature, alcune delle quali sono poi degli adattamenti di suoi romanzi; Capote è alla ricerca dell’ispirazione giusta per portare a compimento un’opera di tale respiro da divenire un caposaldo del decennio a venire, decretando addirittura l’inizio di un nuovo genere letterario: quello costituito dal romanzo verità o romanzo reportage.
Il 16 Novembre 1959 un articolo letto sul New York Times sembra inaspettatamente offrirgli l’occasione insperata: un’agiata famiglia di agricoltori, i Clutter, viene sterminata, senza una ragione apparente, nella propria casa a Halcomb in Kansas. L’efferatezza di tale delitto lo convince della necessità di scrivere un articolo sull’impatto che un crimine di tali proporzioni può avere su una comunità rurale ed isolata come quella. Persuade William Shawn, allora leggendario direttore del New Yorker ad affidargli il delicato compito di potersene occupare in prima persona.
Ad affiancarlo nelle ricerche sul campo sarà l’amica e scrittrice Nelle Harper Lee: preziosa non soltanto come collega e collaboratrice, ma insostituibile nel fare da tramite a Truman in una comunità chiusa come quella di Halcomb, dove l’affettazione dei suoi modi ed il tono mellifluo della sua voce, insieme al cipiglio di un carattere diretto quanto ambiguo, vengono inizialmente visti con circospezione dai suoi abitanti. Harper Lee e Truman Capote provengono infatti dal medesimo ambiente sociale e culturale: non soltanto quello mondano e radical chic newyorkese di più recente acquisizione, ma anche quello della loro infanzia, legato alle terre degli stati del sud, conservatore e tradizionalista sino a giungere al più bigotto razzismo. Dimostrazione di tale mondo e della mentalità che lo contraddistingue sarà proprio il romanzo della Lee, “Il buio oltre la siepe”, pubblicato nel 1960: un affresco letterario che le varrà il Pulitzer e che affonda le sue radici direttamente nella giovinezza vissuta in prima persona dall’autrice, raffigurando lo stesso Truman Capote – amico dunque di vecchia data – nei panni di Dill, uno dei protagonisti.
Il 30 Dicembre 1959, Nelle e Truman assistono, sulle scale del penitenziario della contea di Finney, all’arrivo di Perry Smith e Richard Hickock, arrestati a Las Vegas come principali indiziati dell’omicidio dei Clutter.
Da questo momento in avanti, il pezzo giornalistico di Capote assumerà molto rapidamente nella sua testa i contorni di un’opera, la cui portata non osa nemmeno confessare a sé stesso. Il libro assorbirà tutte le sue energie nei sei anni successivi e cannibalizzerà letteralmente il resto della sua esistenza umana ed artistica, rendendolo vittima, all’ora forse ancora ignaro, della sua avidità e brama d’affermazione agli occhi del mondo.
Da questi difficilissimi e controversi elementi biografici – sia quelli dell’omicidio dell’intera famiglia Clutter, che quelli più strettamente connessi alla vita dello scrittore americano negli anni in cui affrontò la stesura di “A sangue freddo”, legato per l’appunto a tale strage – si dipana l’intera trama del film di Bennett Miller. Non soltanto la pellicola prende il suo titolo dallo stesso romanzo di Capote, di cui si andrà a parlare; ma nella sua resa cinematografica, la trama, è permeata di inquietanti similitudini con gli elementi peculiari che hanno portato Capote al concepimento di un’opera che avrebbe maledetto amaramente non appena terminata. Innanzitutto una regia lucida e spietata nel far emergere il cinismo che sta dietro a questa storia.
Estremamente incisiva ed asciutta nel raccontarci i fatti inerenti alla vicenda Clutter; quanto sottile nel palesare la reale volontà che si cela per tutto il film dietro al lavoro di Truman e che acquisterà sempre maggior consapevolezza agli occhi del protagonista, attraverso i colloqui con Perry Smith.
Miller ha saputo coniugare abilmente alcuni stilemi del film biografico con quello di genere noir, in una pellicola di più ampio respiro. Ricordando, per alcuni aspetti, lo splendido capolavoro dei fratelli Coen - L’uomo che non c’era – evidenzia, con la stessa perversa ironia che il destino non manca mai di possedere, quale machiavellica trama spesso si nasconde dietro la realizzazione delle nostre più grosse e segrete ambizioni: tanto più ci dimostriamo pieni di noi stessi, tanto più il fato sarà desideroso di compiacerci.
Pregevole è la fotografia di Adam Kimmel (che nel film impersonifica il fotografo di moda Richard Avedon): nel riuscire a descrivere come una landa fredda e desolata l’ambiente agricolo di Halcomb tutto in tinte grigie e marroni. Abile nel definire gli spazi spogli e geometricamente lineari delle case di questa cittadina, così come quello delle celle abitate da Perry ed Hickock; differenziandole drasticamente da quelli che sono gli abituali luoghi di vita e frequentazione di Truman Capote: l’assolata costa spagnola o lo scintillio dello skyline newyorkese.
Complice della riuscita del film, l’ottimo cast del quale Bennett è riuscito a circondarsi. Partendo dai coniugi Dewey: Alvin, interpretato da Chris Cooper (American Beauty e Seabiscuit), attore spesso comprimario di elevata caratura, che negli ultimi anni ci ha abituato a personaggi finemente cesellati, qui interpreta un efficiente e riservato agente del Kansas Bureau of Investigation, dedito solamente a lavoro e famiglia. La moglie Marie (Amy Ryan, La guerra dei mondi), al contrario più gioviale e desiderosa di respirare un po’ l’aria del bel mondo, sarà la prima ad accogliere Nell e Truman nella propria casa, vincendo così anche la diffidenza di quanti ad Halcomb li guardavano con sospetto. L’amica d’infanzia Harper Lee (Catherine Keener, The Interpreter e Amici e Vicini) e il compagno di vita di Capote, Jack Dunphy (Bruce Greenwood, Thirteen Days e Il Dolce Domani); rappresentano la sfera degli affetti più vicini allo scrittore. Consapevoli delle contraddizioni e delle stranezze insite in lui, ma pronti a riconoscerne il cieco egoismo e a biasimarlo, quando questo arriva ad assoggettare qualunque cosa al proprio scopo, cancellando qual si voglia remora morale. In ultimo, le impeccabili interpretazioni che di Truman Capote e Perry Smith ne danno rispettivamente Philip Seymour Hoffman ( Magnolia e Happiness) e Clifton Collins jr. (Traffic e Le Regole dell’Attrazione). Nonostante le situazioni contingenti estremamente diverse che li separano, si verrà ad instaurare tra i due uomini un rapporto strettissimo e molto torbido, che finirà col mettere in evidenza parecchie sconcertanti ed inquietanti affinità caratteriali. Attraverso le loro conversazioni avvenute nei luoghi di detenzione – che per altro riportano fedelmente in sceneggiatura, alcuni stralci delle circa quaranta lettere realmente esistenti, a testimonianza dello scambio epistolare tenutosi tra Truman ed i due detenuti – apparirà con sorprendente chiarezza quanto l’uno sia il contraltare dell’altro. Con una recitazione portata avanti con grande maestria sul filo di una lama, giocata tutta sulle sfumature; Hoffman e Collins, sembrano due funamboli, che spingono sull’orlo del baratro delle rispettive ossessioni, i loro personaggi.
Può apparire paradossale, ma alla fine del film ad uscirne meno malconcio emotivamente da questo rapporto, sarà proprio Perry Smith, nonostante sia lui, quello che tra i due, finirà sulla forca.
D’altra parte Truman Capote porterà in sé tali e profonde cicatrici, da rammaricarsi, per il resto del tempo che gli sarà concesso, del giorno in cui la sorte gli arrise, più che di qualsiasi altro periodo della propria vita; tanto da mettere in guardia chiunque esprimesse apertamente l’ardente desiderio di qualcosa: attento, qualcuno potrebbe anche starti ad ascoltare ed esaudire le tue preghiere. Tutto sommato qualcosa di miss Golightly lo ritroviamo, nel fragile sguardo del Capote che ci regala Philip Seymour Hoffman sul finale del film: la disperata ricerca di un riparo nell’approvazione altrui, che faceva tornare la disincantata Holly newyorkese, la spaurita Lulamy delle sperdute campagne. Ilaria Serina
|
Vai alla scheda del film
|