Edison City
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David J. Burke, creatore, autore e produttore di alcune note e fortunate serie televisive americane come “Law & Order: Special Victims Unit”, “SeaQuest” o “Wiseguy” (quest’ultima in particolare gli è valsa anche una candidatura agli Emmy Award); ha firmato, con il film “Edison City”, la sua prima regia cinematografica, forte però di alcune recenti collaborazioni televisive.
Per apportare il giusto appeal al progetto, non si è fatto mancare un ricco e variegato cast, che può contare, tra gli altri, su due “colonne portanti” del calibro di Kevin Spacey (premio Oscar per “American Beauty” e per “I soliti sospetti”) e Morgan Freeman (premio Oscar per “Million Dollar Baby”); con la collaborazione dei quali, tiene a battesimo Justin Timberlake (ex membro degli ‘N Sync e più noto alle cronache mondane come l’attuale compagno di Cameron Diaz) per il suo debutto sul grande schermo.
“Edison City” è apparentemente un film poliziesco che accorpa in sé, riproponendole, tematiche come: l’inchiesta giornalistica, i dilemmi etico/sociali che attanagliano la coscienza di chi, come poliziotti o giornalisti, si ritrovano a misurarsi con la realtà della propria professione quando questa si scontra violentemente e inaspettatamente con i propri ideali o, più umanamente, con le proprie ambizioni personali. E’ un film sulla dilagante corruzione, a partire anche dalle sfere più basse delle cariche pubbliche, politiche e governative. Sull’abuso di potere, non soltanto per quanto riguarda quello direttamente imputabile alla “forza bruta” di colui che si professa tutore della legge, approfittando a piene mani dello status privilegiato che la comunità gli conferisce, per disseminare il terrore e riempirsi impunemente le tasche. Vi è poi quello più subdolo ed invasivo dei media, che non perdono occasione per orchestrare le sorti di noi tutti, fungendo da potere occulto.
David J. Burke – che oltre ad essere il regista, è al contempo ideatore e sceneggiatore del film – ha sottolineato quanto fosse importante la scelta delle location (nella fattispecie Vancouver, città del Canada occidentale, di moderne concezione urbanistica dove la scintillante architettura del centro si staglia sullo sfondo d’imponenti montagne) e del nome della città, Edison per l’appunto (con chiaro riferimento a Thomas Edison); nel restituire allo spettatore l’illusione di una vita perfetta in un luogo sicuro - garantita da un’eguale crescita economica e sviluppo tecnologico - apparentemente inattaccabile. Appena al di sotto di questa dorata superficie, si nascondono però le più cupe e profonde contraddizioni dell’uomo moderno e della società in cui oggigiorno viviamo tutti.
Per ricreare la giusta atmosfera nel film e dare corpo alla storia narrata, Burke, avrebbe voluto prendere a prestito stilemi, situazioni ed archetipi di alcuni generi cinematografici contaminandoli fra loro. Ispiratosi a pellicole che la storia del cinema ha poi decretato essere dei veri e propri capisaldi del poliziesco, del gangster movie, piuttosto che del noir, come: “Serpico”, “Chinatown” ed il più recente “L.A. Confidential”. L’intento, non è altri, se non quello di rimarcare il più possibile quanto divenga labile la linea di demarcazione tra senso di giustizia e persecuzione, dettata da una cieca crociata personale, in nome di tutto ciò che comunemente riteniamo un sacro santo valore irrinunciabile e nel nome del quale tutto il resto è opportunamente sacrificabile… Sino a che punto e per quanto tempo ognuno di noi è disposto a spingersi oltre, voltando lo sguardo dall’altra parte, quando questo scorge ciò che mai avremmo voluto vedere?
Di fatto il film si apre proprio con una riflessione da parte di uno dei protagonisti – enunciata in voice over – su quanto aleatorie, siano le nostre certezze riguardanti tutto quello che comunemente reputiamo alla base del nostro viver civile in una società moderna e che, incuranti della realtà che ci circonda, diamo erroneamente per scontato ed acquisito. Lo stesso ragionamento si troverà ben presto a farlo lo spettatore – con considerazioni certamente meno profonde, ma anche con meno presunzione – in seguito all’evolvere della trama del film; ma più in particolare rispetto a come questa venga trasposta e sviluppata sul grande schermo, con non poche velleità autoriali da parte del regista.
Raphael Deed (James Todd Smith, meglio noto come LL Cool J, cantante rap di successo e interprete di film come “Nella mente del serial killer” e “Blu profondo”) è un poliziotto di una squadra speciale di Edison, la F.R.A.T. (First Response Assault & Tactical) addetta al controllo dell’uso di steroidi ed equipaggiata impeccabilmente, alla quale si è ammessi solo se in possesso di requisiti ritenuti assolutamente necessari, come: una mira pressoché infallibile, una più che adeguata esperienza negli scontri a fuoco e nessuna fede al dito.
A questa versione riveduta e corretta della S.W.A.T., vengono affidati i compiti più scomodi e rischiosi, pur di mantenere “pulita” la città. Conseguendo ottimi risultati, ricevono il consenso dell’intera comunità, visto, per di più, che nessuno ha modo di potersi interrogare su quali poi siano le effettive modalità tramite le quali vengono perseguiti tali risultati.
Proprio grazie alla F.R.A.T. dunque, veniamo condotti negli anfratti più bui di quella che scopriremo essere in realtà una “Sin City” dei nostri giorni: conosceremo i nascondigli dove gli spacciatori portano a termine i loro sporchi affari ed i locali di striptease tanto esclusivi da divenire l’alcova della stessa squadra speciale. Il fondatore e militaresco capo di questa unità è Bernard Tilman (John Heard, “Big” e “Il rapporto Pellican”), che trova il proprio alter ego operativo nel sergente Francis Lazerov (Dylan McDermott, “Wonderland” e “Nel centro del mirino”); quest’ultimo ha un’interpretazione e un’abnegazione nei confronti di molti aspetti del proprio lavoro, pari a quella di un esaltato, ma che, proprio per questo motivo, risulta essere l’elemento più idoneo e rappresentativo della stessa F.R.A.T.. Il collante del gruppo, il “figlio prediletto” di Tilman, da lui prescelto, addestrato a dovere, incoraggiato nell’avanzamento della propria carriera ed infine distrutto, perché incontenibile nel rimediare facili e quanto mai definitive soluzioni per gli imbarazzanti imprevisti che la F.R.A.T. si ritrova come effetto collaterale delle proprie missioni.
L’agente Deed, dopo esser stato duramente messo alla prova – una volta di più – dall’ennesimo abuso di potere del suo collega, che, neanche a dirlo, è ovviamente il sergente Lazerov, comincia a porsi seriamente in discussione ed è dilaniato tra dubbi sull’etica morale del suo operato ed i desideri personali. Vorrebbe sposare la sua donna, Maria (Roselyn Sanchez, “Basic”) e con lei avere una famiglia che manterrebbe lavorando per la ditta di idraulica del suocero. Consapevole dei vincoli che gli impone il suo lavoro e degli inutili rischi ai quali esporrebbe Maria; nemmeno le premure di lei o i massacranti esercizi con i pesi, ai quali ogni sera si sottopone Raphael, riescono ad alleviare le tremende emicranie – scaturite dai sensi di colpa - che gli impediscono di prender sonno la notte.
La possibilità del riscatto sembra profilarsi quando, durante un’udienza in tribunale, Deed e Lazerov fanno la conoscenza di Josh Pollack (Justin Timberlake). Ambizioso aspirante giornalista alle prime armi, fresco di laurea, Pollack aspetta solo l’occasione di mettersi in luce per niente di meno che non sia un Pulitzer! Di fatto è costretto a fare la gavetta scrivendo per l’Heights Herald; quotidiano locale di poco conto, più noto per le sue inserzioni pubblicitarie che per gli articoli di denuncia, che di fatto non pubblica poiché nemmeno richiesti ai propri dipendenti. Morgan Freeman interpreta Moses Ashford, direttore del giornale, ex fotoreporter pluripremiato che, accontentandosi di compiacere gli inserzionisti locali, vorrebbe dimenticare il suo glorioso passato; questo nonostante viva in un mausoleo che si è costruito appositamente, di fatto, più in commemorazione ad esso che al dolore delle atrocità subite dalle vittime della guerra in Cambogia. Stanco della sfrontatezza del suo giovane collaboratore, lo licenzia per poi aiutarlo, in un secondo momento, quando constaterà personalmente che, nonostante le pesanti intimidazioni subite da parte di Pollack e Willow, la sua ragazza (Piper Perabo, “Una scatenata dozzina”), quest’ultimo vacilla, ma non si arrende nel perseguire lo scoop.
A dar loro una mano ci sarà Levon Wallace (Kevin Spacey), un veterano della squadra investigativa speciale al quale non sono mai andati giù i metodi operativi a dir poco discutibili della F.R.A.T.. Anch’egli troverà in Ashford e Pollack - servita su di un piatto d’argento - l’agognata occasione per dimostrare non solo la fondatezza dei suoi dubbi; ma per porre personalmente la parola fine all’esistenza stessa di questo gruppo legalizzato di esaltati.
Burke disattende, una dopo l’altra, tutte le premesse iniziali, cadendo per di più negli stereotipi più banali e comuni dei film di genere sopra citati. Anziché rielaborarli, commissionandoli tra loro in maniera innovativa (ma anche solo a riproporli, catturando però la nostra attenzione), il film si limita ad essere una serie di situazioni già viste pressoché un infinito numero di volte, che rasentano il parodistico, interpretate da personaggi talmente incasellati in cliché predefiniti, da risultare delle vere e proprie macchiette.
Le uniche battute efficaci e che risultino effettivamente divertenti (avendo l’intenzione di esserlo) sono affidate a Spacey (si segnala per altro un’acconciatura degna del miglior Elvis!!...che spesso distoglie l’attenzione dalla trama del film) e Freeman; i quali però, malamente utilizzati dal regista, entrano in scena con tutto il peso delle loro carriere cinematografiche e finiscono per sortire sul film un tale effetto boomerang, da affossare definitivamente i rispettivi personaggi.
Se a film terminato ci ritroviamo a fare dei riferimenti – più o meno volontariamente ricercati dallo stesso Burke - a pellicole come “Minority report” (Steven Spielberg, 2002) o “Tutti gli uomini del presidente” (Alan J. Pakula 1976)…l’effetto, permettetemi l’osservazione, è stridente come il proverbiale gesso sulla lavagna!
Ilaria Serina
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