La vita segreta delle parole (The Secret Life of Words)
Undici anni fa Isabel Coixet (La mia vita senza me) intraprese un viaggio che la portò in Cile e le permise – tra le altre cose – di poter vivere per un certo periodo di tempo su di una piattaforma per l’estrazione del petrolio, a diversi km dalla costa. L’esperienza la colpì e l’affascinò a tal punto d’arrivare a decidere che il suo prossimo film si sarebbe ambientato in un luogo simile.
In un ambiente tanto particolare – non solo di lavoro – dove un gruppo di persone così eterogeneo (per provenienza, vissuto personale, mansioni o competenze professionali) si trova a coesistere in condizioni che rasentano la cattività; si stabiliscono tacitamente dei legami profondi, degli equilibri particolari quanto delicati, dove rispetto e collaborazione reciproca non sono alla base del semplice quieto vivere, ma divengono essenziali per la sopravvivenza dell’intera piccola comunità.
Circostanze di convivenza tanto anomale possono rivelarsi talvolta quelle ideali per conoscere un altro essere umano - nel senso più autentico del termine - e ciò che viene detto o taciuto, rappresenta, ad ogni modo, la rivelazione di un’intima confidenza o l’anelata liberazione da un segreto indesiderato.
Per questi motivi e con questi presupposti “la piattaforma” diviene il luogo deputato dell’ultimo film di Isabel Coixet “The secret life of words”, presentato nella sezione orizzonti, all’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Hannah (Sarah Polley, La mia vita senza me e Non bussare alla mia porta) è una giovane donna che apparentemente sembra aver trovato il modo di sfruttare, a proprio vantaggio, il fatto d’essere sorda: creando attorno a sé un ambiente ovattato e protetto, una rete che le permette di “filtrare” il mondo esterno e di essere raggiunta da chi la circonda, con modi e tempi da lei designati.
Questo atteggiamento che oramai Hannah ha assunto da tempo nei confronti della vita, viene interpretato come un’eccentricità da parte di chi le sta accanto, arrivando a crearle dei seri problemi sul luogo di lavoro: la fabbrica dove è impiegata come operaia, la congeda infatti per un periodo di ferie forzato. Hannah è incredula dinnanzi alle motivazioni addotte dal suo datore di lavoro e, pur sospettandone la ragione è riluttante all’idea di ritrovarsi da sola ad organizzare tutto quel tempo libero che le resta, non sapendo assolutamente cosa farsene.
Isabel Coixet ci presenta subito la sua protagonista all’interno di una quotidianità che si è costruita semplicemente: dove, se le certezze sono poche e labili (nemmeno quella di fare bene e con costanza il proprio lavoro, non assentandosi mai) i riti che perpetua ogni giorno (come mangiare sempre le stesse pietanze allo stesso modo) l’aiutano a rimanere saldamente ancorata alla realtà.
Destino vuole che le venga offerta l’opportunità di assistere – come infermiera personale – un uomo rimasto vittima di un brutto incendio ed ora confinato a letto, gravemente ustionato e momentaneamente cieco. Josef, questo è il suo nome, è un uomo profondamente ferito non soltanto nel proprio corpo. Un personaggio reso straordinariamente umano dalla bella performance di Tim Robbins (Le ali della libertà e Arlington Road – l’inganno) che, inizialmente disorientato, non soltanto dalla terribile situazione in cui si è trovato suo malgrado catapultato, ma soprattutto dall’indecifrabile atteggiamento della donna che lo accudisce in tutto ogni momento della giornata; tenta di fare dell’umorismo l’unica arma possibile atta a scalfire il muro di ostinato silenzio dietro il quale Hannah si nasconde.
Se, la particolare situazione di isolamento nella quale hanno modo di conoscersi, dovuta, non soltanto all’ambiente circostante, ma specialmente ai limiti dettati dai reciproci handicap, possono forse apparire ai nostri occhi come un limite; Josef e Hannah riescono invece a farli divenire il punto di forza per instaurare un rapporto fatto di una speciale intimità ed alchimia, scaturita da fattori come: il peso di indicibili segreti che affondano le loro radici nella sofferenza del passato, da verità mal celate anche a sé stessi e da bugie che invece non riusciamo a dire nemmeno agli altri.
Il film di Isabel Coixet vuole dare appunto voce a quelle parole che vagano silenti come in un limbo, dentro di noi, senza che si trovi mai il coraggio di pronunciarle: pensieri inespressi, che per un tempo infinito pesano come macigni, lasciando però al contempo un vuoto inspiegabile. E’ un film sul dolore ed il martirio; mai trattato però in modo semplicistico o con disincanto e sul peso del passato che ognuno porta con sé attraverso il tempo, le proprie esperienze, che talvolta non manca di farsi minaccioso ed incombente sul nostro presente impedendoci di guardare invece al futuro. Non manca inoltre di trattare il tema della salvezza conferita dall’amore: un amore autentico e profondo che nasce dal desiderio di rispettare chi si ha di fronte e di conoscerlo veramente per ciò che è; ed anche se si ha la consapevolezza di non poter cancellare in alcun modo ciò che è stato, si ha d’altro canto la grande opportunità di lenire un ineluttabile senso di colpa che marchia come fuoco chi è vittima di atroci barbarie.
Le critiche che si possono muovere al film sono senz’altro l’andamento indolente dell’inizio, costellato da momenti di stasi, che certo mettono a dura prova l’attenzione ed il coinvolgimento dello spettatore; inoltre, la svolta decisiva nella trama del film giunge forse tardiva, indugiando inspiegabilmente in una “suspence” ingiustificata.
Vanno indubbiamente spese due parole di merito per le belle interpretazioni di Javier Camara (Parla con lei) e di Julie Christie (la quale non necessita di inutili presentazioni!): rispettivamente Simon, fantasioso ed estroverso chef per i lavoratori ed abitanti della piattaforma, e Inge, navigata psicoterapeuta alla quale va il merito della possibile ricongiunzione finale dei due protagonisti. Con il personaggio di Simon, Isabel Coixet, prende come pretesto “la tavola” per approfondire temi come: la convivenza, il confronto, l’accettazione, la diversità e la rimessa in discussione; esemplificandoli con la preparazione, condivisione e degustazione di arditi esperimenti culinari. In fin dei conti, il cibo è un rito ed un piacere, universalmente condivisibili!
Mentre, grazie all’intervento finale di Inge, il film da voce ad un numero - che purtroppo non troverà mai una stima reale – delle vittime delle sevizie e di atroci crimini di guerra.
Se in altre occasioni, gli ambiziosi temi di questa pellicola hanno riservato non poche insidie ad alcuni colleghi della regista, caduti nelle facili trappole tese dalle proprie velleità artistiche che ben poco asservivano la buone riuscita del film; Isabel Coixet ha invece il dono di saperli trattare con grande dignità, riservandoci un inaspettato “happy end” che, ben supportato già durante tutto il resto della narrazione, non risulta posticcio o di facile presa sul pubblico. Semmai vuole essere una dichiarazione di speranza; data dalla precisa volontà di cambiamento dei due protagonisti e dal coraggio di accettazione del proprio passato.
A conferma di ciò che è stato detto sinora, prendo a prestito, per concludere, le parole dello scrittore inglese John Berger: “le loro debolezze sono come le nostre – la conseguenza di aver vissuto”.
Ilaria Serina
|
Vai alla scheda del film
|