Seven Swords
Il rosso è quello del sangue e dei drappeggi di guerra. I Ching si sono insediati sul trono dell'impero cinese, un
editto vieta le arti marziali in tutto il paese. Il generale Fire-Wind, a capo di un drappello di spietati guerrieri, semina
il panico radendo al suolo i villaggi che non possono permettersi di pagare per essere risparmiati. Finchè un aguzzino
pentito, scampato al patibolo, non organizzerà in uno dei pochi paesi ancora in piedi un mini esercito di sette valorosi,
dotati di sette invincibili spade forgiate dal venerabile maestro della montagna. La lotta fra i perfidi militari e le
sette spade sarà lunga e piena di svolte inattese.
Adattando il famoso romanzo Seven swords of Mount Heaven di Liang Yusheng, il regista di Hong Kong Tsui Hark
mescola topos della tradizione orientale secondo criteri che si preoccupano soprattutto di restituire agli eventi quel
senso di autentica originalità della fonte. Kolossal nell'allestimento scenico e nell'orchestrazione delle sequenze di
guerra - per certi versi spina dorsale di un prodotto di 144 minuti -, Seven Swords ricostruisce con curata precisione
un quadro non nostalgico, in cui il mito trova come appoggio il riferimento storico.
Il respiro epico di cui il regista ha scelto di dotare la pellicola è valso alla stessa l'onore di aprire, fuori
concorso, la sessantaduesima Mostra del cinema di Venezia; un segnale, questo, che il messaggio è stato recepito. Il fascino
che il film dovrebbe sprigionare (almeno per le platee occidentali) risiede in parte nell'elemento esotico in senso
letterale, l'incanto che impregna il monumentalismo quando questo s'accompagna a fattori di diversità geografica. Del
resto parte della filmografia orientale più intelligentemente raffinata è già riuscita a sdoganarsi. Ha spianato la strada
un mago del grande schermo come Ang Lee, che ha portato La tigre e il dragone al trionfo degli Oscar; l'ha seguito Zhang
Yimou con i suoi Hero e La foresta dei pugnali volanti.
La tradizione in cui Tsui Hark punta ad inserirsi è probabilmente quella, e la confezione di Seven Swords lascia
poco di intentato. La colonna sonora di Kenji Kawai è evocativa e ricca di significato; la livida fotografia di Kwok-Man
Keung e Venus Keung smorza e accende i colori in giochi di utili rimandi semantici. Ed è impeccabile la costruzione dei
combattimenti - a due o di massa -, spezzate però (volutamente?) da un montaggio, opera di Angie Lam, che cuce inquadrature
a raffica acuendo il senso di velocità reso dalle acrobazie ginniche.
La peculiarità culturale si spiega e tenta la strada dell'universalizzazione delle tematiche, cristallizzate nello
scontro fra bene e male, riuscendo a fare del film un godibile prodotto d'intrattenimento intelligente; nel rilievo che le
figure femminili assumono all'interno della vicenda, poi, Seven Swords pare quasi strizzare l'occhio al disneyano Mulan.
Ma Tsui Hark non è Zhang Yimou né Ang Lee. La spiritualità tipica del primo qui s'impolvera sotto il peso di
posizioni fortemente ideologiche e di quadri psicologici meno fluidi (il guerriero tutto d'un pezzo, il saggio mistico, la
ragazza forte poco avvezza al compromesso di comodo), che servono una narrazione bellica costruita con rispetto quasi
mistico. E a questo elemento bellico manca l'esperta ed eclettica mano di Ang Lee. Il regista fa procedere il racconto per
compartimenti stagni, con ellissi narrative e giochi di sottinteso talvolta spiazzanti. Sono scelte che, nell'abbinamento a
una storia simile, rendono il risultato ostico per il gusto dello spettatore occidentale, non abituato a una narrativa già
poco conosciuta e ferma sulle sue posizioni, poco propensa a venire incontro al suo pubblico ammorbidendo le linee di schemi
novellistici piuttosto rigidi.
Della riflessione antropologica e sociologica resta così ben poco, compromessa com'è da quadri tanto ieratici e
solenni; s'esprime in immagini metaforiche, come l'inquadratura d'apertura, un primo piano su una capra bianca in mezzo alla
neve, che l'irregolare compressione spazio-temporale congela nel turbinio degli eventi e lì lascia. Una promessa che lo
spettatore può solo cercare di leggere fra le righe.
Alessandro Bizzotto
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