La recensione:MANCHESTER BY THE SEA a cura di Ilaria Serina

Una delle meraviglie del cinema risiede proprio nella molteplicità, nella varietà pressoché inesauribile delle storie che racconta e non soltanto per i temi che affronta, ma per l’incredibile opportunità che offre a chi vi si accosta, utilizzandolo come mezzo di espressione, di adattarsi con grande duttilità a qualunque tipo di sensibilità, veicolando un ventaglio infinito di emozioni; merito certamente anche delle differenti arti che vi convergono e collaborano alla sua realizzazione, rappresentate dalle varie maestranze coinvolte. Per farsi un’idea anche vaga di ciò, basterebbe vedere i film candidati nella categoria miglior film agli Academy Awards quest’anno: se il musical di Chazelle - “La La Land” – in corsa con ben quattordici nomination, sembra aver letteralmente stregato chiunque con un’atmosfera che, pur conservando una vaga attinenza con le amarezze che il confronto con la realtà comporta, ci catapulta di fatto in un sogno lungo due ore abbondanti fatto di colori, musica e amore; l’antitesi esatta e perfetta sembra essere allora qui rappresentata dalla faticosa, dolorosa normalità narrata da Kenneth Lonergan in “Manchester by the Sea”.
Il regista e sceneggiatore statunitense era già approdato in passato alla magica notte degli Oscar nel lontano 2001, con un piccolo e riuscitissimo film indipendente - “Conta su di me” – che, ottenuto l’indiscusso sostegno della critica ed avendo felicemente attraversato la vetrina di molti festival nonché premiazioni di prestigio, riuscì ad aggiudicarsi due nomination fondamentali: quella di miglior sceneggiatura originale proprio per Kenneth Lonergan e quella di attrice protagonista per Laura Linney. Sedici anni più tardi lo ritroviamo con quest’opera e sei nomination all’attivo, un bel balzo in avanti senza dubbio, sebbene i punti cardine del suo cinema non siano cambiati, semmai si son fatti più fini e profondi. Lonergan è un autore che dimostra di saper mettere e mantenere la storia che sceglie di raccontare al centro “dell’azione”, benché di azione in effetti non è che ve ne sia molta nei suoi film; piuttosto, largo spazio di manovra è concesso ai suoi interpreti, ai dialoghi, alle emozioni, mai banalizzate, sempre contenute, restituite sul grande schermo con estrema autenticità e nel totale rispetto della dignità dei suoi protagonisti. Semplicità è la parola che meglio descrive l’approccio di questo regista al suo lavoro, ma nell’accezione migliore del termine, il che comporta un uso sapiente e non comune del mezzo cinematografico, specialmente nel panorama americano di questi tempi.
Protagonista di un improvviso ed indesiderato ritorno a casa, a causa di un evento luttuoso, è Casey Affleck che qui dona volto e anima a Lee Chandler: uomo schivo dal carattere introverso e spigoloso che sopravvive ai margine della vita, come l’ombra di sé stesso, in un piccolo scantinato sbarcando il lunario come custode tutto fare. Si troverà suo malgrado sorprendentemente investito del ruolo di tutore di suo nipote Patrick ( Lucas Hedges ), un adolescente dedito alla musica e all’hockey su ghiaccio, alle prese con le prime maldestre relazioni sentimentali giovanili e la delicata elaborazione del lutto paterno, reso ancor più difficile dall’assenza della figura materna. A complicare notevolmente il tutto per Lee sarà il riavvicinamento della ex moglie Randi ( Michelle Williams ) con la quale condivide il dolore di un passato innominabile. Casey Affleck e Michelle Williams confermano una volta di più il loro talento, mettendo a segno una performance che li ha portati sino agli Oscar, a dimostrazione di una carriera costruita con attenzione sulla scelta di progetti da sposare e personaggi da interpretare, resi poi sul grande schermo con grande sensibilità ed intelligenza; ma la vera rivelazione di questo film resta il giovanissimo Lucas Hedges ( “L’amore secondo Dan”, “Gran Budapest Hotel” e “La regola del gioco” ) per la disarmante autenticità che regala al suo personaggio. A completare l’ottimo cast merita senz’altro una menzione anche Kyle Chandler ( “Carol”, “The Wolf of Wall Street” e “Super 8” ) che ha saputo, seppur con ruoli da comprimario, ritagliarsi un posto d’onore in molti tra i progetti più interessanti ed accanto agli attori più importanti degli ultimi anni. Qui interpreta il fratello maggiore di Lee e padre di Patrick, Joe, che avremo modo di conoscere e scoprire, nel corso dell’intero film, grazie al sapiente uso dei flashback messo a punto dalla montatrice Jennifer Lame, che ha saputo mettersi al servizio del film di Lonergan con il suo ottimo lavoro.
“Manchester by the Sea” non è tanto un film sulla perdita e l’elaborazione del lutto, benché in effetti l’evento scatenante da cui prende il via e si dipana l’intera storia lo lasci pensare e resta comunque uno dei temi fondamentali attorno al quale ruota l’intero film; ma è semmai una riflessione intima e profonda, portata avanti senza retorica ne sconto alcuno, sulla capacità di perdonare e perdonarsi soprattutto; di come, se si riesce a farlo, si possa, non si sa nemmeno bene come ne perché, trovare un flebile spiraglio per aggrapparsi a ciò che resta delle nostre esistenze, anche a dispetto del baratro più profondo che talvolta la vita apre improvvisamente sotto i nostri piedi.
Questo film è anche un meraviglioso e raro esempio di come si possa raccontare una storia da un punto di vista squisitamente maschile, con grande onestà e rispettandone la sensibilità; che è molto differente da quella femminile e che probabilmente, per ragioni che non stiamo qui ad indagare, ha trovato poco spazio e voce in questi anni, ma che è un piacere ritrovare e riscoprire nuovamente.
L’opera di Lonergan ci richiede uno sforzo in più nella visione – ed è uno sforzo che è un piacere fare! - per esser realmente compresa ed apprezzata; poiché ci impone un altro passo, un altro ritmo ed un altro punto di vista rispetto a quanto e a come siamo soliti veder narrate molte storie, sia sul piccolo che sul grande schermo. Perciò, nonostante qualche piccola lungaggine di troppo, un inizio con qualche lieve incertezza ed un finale che sembra non saper tirar le fila; Lonergan è capace di ricordarci con grandissimo garbo, che la vita è fatta di brusche virate che ci mettono a terra, come di piccolissime svolte che però fanno la differenza e che non esistono metri di misura uguali per tutti a determinare chi siamo, se non la volontà, data dall’amore, che fa la differenza tra vivere e lasciarsi morire.
Casey Affleck resta al momento il favorito nella corsa agli Oscar tra i candidati al premio di miglior attore protagonista e se, dopo essersi aggiudicato un Golden Globe, il BAFTA ed il Critics’ Choice Awards, agguantasse anche l’ambita statuetta, sarebbe la piacevole conferma che l’Academy – dopo la vittoria di Mark Rylance lo scorso anno come miglior attore non protagonista per “Il ponte delle spie” - potrebbe aver finalmente deciso di abbandonare determinati cliché nel consacrare i suoi attori, a favore di performance più intimiste e misurate.

Ilaria Serina




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