La recensione: E' SOLO LA FINE DEL MONDO a cura di Ilaria Serina
Xavier Dolan continua a mantenere al centro dei suoi film le complesse e delicate dinamiche famigliari, raccontandole con l’innegabile originalità di una regia che lo ha reso “l’enfant prodige” del cinema canadese, lo ha visto gradito ed apprezzato ospite del Festival di Cannes negli ultimi sei anni – ad eccezione della parentesi veneziana nel 2013 con “Tom à la ferme” – imponendolo sul panorama internazionale come uno degli autori più interessanti e promettenti tra le nuove leve di cineasti. Il rapporto conflittuale con la figura materna grazie al quale ha esordito a soli diciannove anni con “J’ai tué ma mère” e raccontando il quale si è aggiudicato il Premio della Giuria alla 67esima edizione del Festival di Cannes con l’intenso e riuscitissimo “Mommy”; si accompagna alle difficoltà che spesso s’incontrano nel ricercare e confrontarsi con la propria identità sessuale ( “Laurence Anyways e il desiderio di una donna” ), sino ad affrontare il tema del distacco, sia esso voluto più o meno consapevolmente per riaffermare la propria indipendenza ed identità, piuttosto che imposto da ingerenze superiori e al di fuori del nostro controllo. “E’ solo la fine del mondo”, adattamento della pièce teatrale scritta ventisei anni fa dall’autore e drammaturgo francese Jean-Luc Lagarce, risulta particolarmente congeniale alla poetica di Dolan poiché ben rappresenta il compendio di tutti quei temi divenuti, in soli sei film, i capisaldi del suo cinema.
Avendo già dimostrato in passato una certa abilità ed attenzione nella direzione degli attori, data probabilmente anche dal fatto d’esser attore a sua volta, Dolan non teme di cimentarsi con un cast "all stars" capace di conferire, già sulla carta, un certo lustro ed appeal ad un film che si preannuncia tutt’altro che semplice. Vincent Cassel è Antoine, il fratello maggiore iracondo ed aggressivo segnato da un evidente complesso d’inferiorità; la fragile ed insicura cognata ha il dolcissimo volto smarrito di Marion Cotillard; la sorella minore mai vista ne conosciuta, ma cresciuta nel mito di un fratello assente è interpretata da Léa Seydoux; mentre a Nathalie Baye è affidato il ruolo della madre dalla dirompente personalità logorroica. Tutti fanno capo a Louis, che è rimasto il perno delle loro esistenze nonostante i dodici anni trascorsi lontano da casa e scanditi unicamente da una serie di cartoline, a cui un eccezionale Gaspard Ulliel conferisce grande espressività e spessore a dispetto delle pochissime battute concesse al suo personaggio, costretto invece a misurarsi con il diluvio incessante, incalzante, di parole che lo investiranno non appena avrà varcato la soglia di casa. Louis è tornato, inspiegabilmente e senza troppe cerimonie, poiché ha un’ingombrante rivelazione da fare che richiede una certa dose di coraggio, ma che potrebbe anche rappresentare la giusta occasione, per sé stesso e tutti i membri della sua famiglia borderline, di fare i conti e chiudere finalmente col passato, purché siano disposti ad ascoltare quanto ha loro da dire.
Dolan mette a punto una regia fatta per lo più di primissimi piani, dove la macchina da presa circonda e avviluppa i protagonisti creando una tensione palpabile ad ogni scena, facendo di ogni scambio verbale una vera e propria lotta che arroventa l’aria portandoci sempre ad un passo dalla deflagrazione.
Al centro di tutto vi è la volontà quanto l’incapacità di comunicare, dove l’incessante, ridondante necessità di conversare ad ogni costo e su ogni argomento - per quanto possa apparirci lecita visto l’eccezionalità dell’evento - crea di fatto un costante stato di confusione che tutto fagocita e soffoca allontanando così i protagonisti sempre più gli uni dagli altri, isolandoli. Rimangono per tanto prigionieri di loro stessi e delle loro paure per le aspettative disattese. Dolan si dimostra piuttosto audace nell’alternare sequenze in cui i ricordi di Louis si fanno nitidi nella memoria, seppur sospesi nel tempo, dando così respiro allo spettatore; con scene in cui non esita ad inseguire il parossismo pur di corroborare l’effetto disturbante di certi dialoghi, sottolineando al contempo quanto essi sottendano e dimostrando che, quanto non si dice aggiunge maggior significato alle nostre parole, così come l’assenza può divenire essa stessa una presenza, nostro malgrado. “E’ solo la fine del mondo” è stato salutato alla scorsa edizione del Festival di Cannes con il Grand Prix Speciale della Giuria e rappresenterà il Canada nella corsa agli Oscar se riuscirà ad entrare nella cinquina di miglior film straniero. Già in passato con “Mommy” a Dolan fu data l’occasione di concorrere, ma il film per quanto buono si fermò alla short list, ad un passo dall’effettiva competizione per l’ambita statuetta.
Quest’ultimo film rappresenta per il giovanissimo regista canadese una maturazione rispetto alle sue precedenti opere e per noi una bella conferma di un talento che ci apprestiamo a seguire con rinnovato interesse anche nel suo prossimo progetto, che lo vedrà nuovamente impegnato con un altro ricchissimo ed interessante cast composto da: Kit Harington, Jessica Chastain, Susan Sarandone e Natalie Portman. “The Death and Life of John F. Donovan”, sarà il primo film in lingua inglese per Dolan, la cui uscita nelle sale è prevista per l’anno prossimo.