Mary Portman (Naomi Watts)è una psicologa infantile costretta a vivere una realtà di semi isolamento a causa di un incidente d’auto che l’ha resa vedova ed ha ridotto Steven, il suo figliastro, in stato vegetativo. Le sue giornate sono scandite dalla quotidiana routine che la vede occuparsi con dedizione di tutte le fondamentali necessità dell’adolescente, al quale è legata da un sincero affetto, ma anche da un profondo senso di colpa irrisolto, a causa di incomprensioni passate e che oramai, proprio per la situazione che entrambi si trovano a vivere e a dover condividere, difficilmente avranno mai la possibilità di chiarire.
Mary si divide dunque tra la casa in cui adempie pienamente al suo ruolo di madre, allo studio, situato a pochi metri da essa, in cui invece esercita la sua professione. L’incessante reiterarsi di giornate identiche le une alle altre che perdura oramai da mesi, con le ovvie difficoltà non solo fisiche, ma anche psicologiche, provano a tal punto lo stato di salute di Mary d’arrivare a soffrire di forti allucinazioni e disturbi del sonno, tanto da richiedere l’intervento di un amico e collega, il Dr. Wilson. Ad alzare ulteriormente la posta e far precipitare gli eventi oramai appesi ad un labile equilibrio, si rendono complici l’imminente sopraggiungere di una bufera di neve e la sparizione di un giovanissimo paziente della Dottoressa Portman, Tom Patterson, bambino con disturbi dell’udito e dall’introversa personalità, affidato alle cure degli assistenti sociali.
Nelle speranze del regista e sceneggiatore britannico Farren Blackburn c’era senza dubbio quello di realizzare un avvincente thriller psicologico a tinte horror, dove le innumerevoli gabbie - vere o presunte - cucite addosso alla protagonista non si trasformassero, dopo la prima mezz’ora, in una trappola mortale per lo spettatore, fatta di reiterazioni, ovvietà e banalissimi trucchetti registici di una messa in scena trita e ritrita che, per rispettare tutti quei passaggi obbligati tipici di un genere fortemente codificato come l’horror, annoia anche lo spettatore meno smaliziato, il quale riesce, passo dopo passo, ad indovinare con largo anticipo tutte le mosse!
Ciò che stupisce maggiormente - oltre all’assurdità di quanto ci viene svelato sul finale, sebbene in effetti dia un senso a quanto accaduto sullo schermo sino a quel momento - è sapere che in questo progetto si siano lasciati coinvolgere attori come Oliver Platt, che dà il volto al razionale, affidabile e placido Dr. Wilson; Naomi Watts, che non avremmo mai voluto vedere inutilmente impegnata nei panni della Dottoressa Portman, in un film che avrebbe potuto benissimo essere uno dei tanti horror che proliferano nelle sale cinematografiche durante l’arida e deludente parentesi estiva; quanto il talentuoso e promettente, seppur giovanissimo, Jacob Tremblay che, in veste di Tom Patterson, il pubblico italiano ritrova nuovamente ostaggio di quattro mura dopo la sbalorditiva prova messa a segno nello splendido “Room” di Lenny Abrahamson.
Probabilmente le ragioni che auspicavano un potenziale successo, poi clamorosamente disatteso, risiedono nel fatto che lo script di “Shut in”, firmato da Christina Hodson, era nella Blacklist delle migliori sceneggiature non realizzate nel 2013 e Farren Blackburn si è fatto notare girando alcuni episodi di “The Fades”, fortunata ed apprezzata serie televisiva in sei episodi targata BBC che ha vinto un BAFTA TV Awards nel 2012 come miglior serie drammatica. Questo però non ha garantito a Blackburn un esordio alla regia cinematografica degno d’esser ricordato! Nonostante gli evidenti sforzi di rifarsi e richiamare alla mente dello spettatore alcuni cult del genere e non solo ( uno fra tutti niente di meno che “Shining”! ); l’unico risultato ottenuto è stato quello di rimarcare inevitabilmente l’inadeguatezza di quanto stiamo guardando. Vorrà dire che attenderemo il regista britannico alla prossima prova, augurandogli ed augurandoci un miglior risultato.