A Hoyer, piccola cittadina della realtà rurale nel Minnesota, dove tutti si conoscono, un uomo di nome John Gray ( David Dencik – “Una folle passione” e “Royal Affair” ) si presenta al commando di polizia per costituirsi, il capo d’accusa: molestie sessuali alla giovane figlia Angela ( Emma Watson – “Noi siamo infinito” e “Bling Ring” ). Sottoposto ad un interrogatorio di routine al fine di acquisirne la deposizione e fare chiarezza di fronte a un fatto tanto increscioso, si fa presto strada un’inquietante verità: John non ricorda assolutamente alcunché riguardo a quanto sostiene di aver commesso, ma l’indubbia certezza che non smette di manifestare a tal proposito gli deriva dalla confessione che la figlia avrebbe rilasciato in chiesa al Reverendo Beaumont durante un seminario e Angela, a detta di John, non gli avrebbe mai mentito, anche a costo della vita.
Il caso viene immediatamente affidato al Detective Bruce Kenner ( Ethan Hawke – “Good Kill” e “Boyhood” ), estremamente meticoloso e perseverante, capace di guardare oltre ai soliti luoghi comuni di provincia e disposto a non scendere a patti con niente e nessuno pur di giungere alla verità, anche se questo dovesse comportare derisione o ostilità da parte dei colleghi più stretti. Ma la sola investigazione in questo specifico caso non è evidentemente sufficiente, visto che il principale sospettato soffre di un’amnesia totale. Sarà lo psicologo Kenneth Raines ( David Thewlis – “La teoria del tutto” e “Macbeth” ) ad addentrarsi in questo labile quanto delicatissimo, ignoto territorio, grazie all’utilizzo della tecnica di terapia regressiva che farà presto emergere un quadro famigliare raccapricciante. Angela e suo fratello Roy sono cresciuti in un contesto dove la dipendenza da alcool ha spesso rappresentato la normalità; orfani di madre a seguito di un incidente automobilistico, chi avrebbe dovuto vegliare su di loro – la nonna paterna Rose – si è resa in realtà complice di efferati crimini avvenuti nel corso di rituali satanici.
Ispirandosi a dei fatti realmente accaduti negli Stati Uniti nel corso degli anni ’80 e ’90, classificati in seguito sotto la denominazione di “Satanic Ritual Abuse”, il regista spagnolo, di origine cilena, il premio Oscar Alejandro Amenábar ( “Mare dentro” ) torna a lavorare su di un terreno a lui congeniale come quello della suspense e del mistero, che ha dato il via alla sua fortunata carriera inauguratasi nel 1996 con “Tesis” ( premiato in patria con sette Goya ) e proseguita in seguito con “Apri gli Occhi” (1997, di cui Cameron Crowe firmò il remake nel 2001 intitolato “Vanilla Sky” ) e il bellissimo “The Others” (2001, primo film da lui girato in lingua inglese e che gli è valso otto premi Goya).
Gli avvenimenti giudiziari e di grande eco mediatico da cui Amenábar trae le proprie considerazioni a spunto della sceneggiatura di “Regression”, furono oggetto di numerose indagini da parte delle forze di polizia, approfonditi studi psicologici e non poche speculazioni figlie dell’ignoranza e della superstizione che diedero il via a procedure legali colpevoli di aver distrutto intere famiglie, generando caos e panico in non poche comunità medio piccole, in tutto e per tutto simili allo scenario raccontato dal regista spagnolo.
Con l’ausilio di personaggi come il Reverendo Beaumont e lo psicologo Kenneth Raines, Amenábar semplifica due punti di vista fondamentali, apparentemente opposti quanto indissolubilmente legati: fede e “scienza”, ragione e credo. Grazie al Detective Bruce Kenner, invece, ci addentriamo in un’esplorazione del male che sovente si annida nei recessi dell’animo umano: vittima inconsapevole di elaborati autoinganni creati talvolta ad arte dalla mente che, pur di eludere dolorose realtà, imbocca pericolose scorciatoie. La vera chiave di volta risiede nel rapporto tra Angela e John Gray e non soltanto perché sono i protagonisti dell’intera vicenda, ma perché ne costituiscono anche l’aspetto più umano e concreto. Eccezion fatta però per la prova messa a segno da David Dencik, al quale sono affidati pochi momenti che l’attore svedese è abilissimo a render cruciali; tutti i personaggi risultano piuttosto piatti, univoci, incapaci di avvincere lo spettatore quanto di far valere le loro istanze iniziali. Benché drammaturgicamente abbiano dinanzi a loro un percorso che dovrebbe vederli irrimediabilmente cambiati, alla fine del film si ha anzi la netta sensazione di ritrovarli sostanzialmente immutati.
Dopo un buon incipit “Regression” si perde quasi subito inanellando una serie di scene tra l’onirico e l’allucinatorio che si reggono su facili quanto futili espedienti narrativi, talvolta addirittura involontariamente comici ( vedi l’immagine della donnina sulla busta della minestra ).
Anche il personaggio interpretato da Ethan Hawke fatica non poco a trovare una sua dimensione, che emerge solo a tratti tra tutti gli alti e bassi del film, sebbene all’attore americano si debba rendere atto dell’ impegno profuso nel conferire una certa profondità al suo Detective.
Molto buono invece il lavoro del direttore della fotografia Daniel Aranyò ( “7 Days in Havana” e “Mr. Right” ) che ricrea le cupe atmosfere tipiche di celeberrime pellicole americane, dei veri e propri cult di genere anni ‘70, come “L’Esorcista” e “Rosemary’s Baby”.
Si deve attendere il finale perché la visione fatta sin lì acquisti un minimo di senso: quella svolta drammatica che getta nuova luce sull’intera vicenda e ti fa rimpiangere che un regista come Alejandro Amenábar non abbia voluto mantenere ed approfondire sin dalle prime battute con la medesima efficacia. Ci avrebbe regalato tutt’altra visione!