La recensione: SILENT SOULS di Aleksei Fedorchenko

“Una profonda e commuovente poesia cinematografica”, con queste parole lo Screen Daily descrive l’ultimo lavoro di Aleksei Fedorchenko, in Concorso alla 67° Mostra internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e vincitore del Premio della Critica Internazionale e l’Osella per il Miglior Contributo Tecnico alla Fotografia.
“Un film evocativo, che resta impresso nella memoria”, sigla il NY Times ed è davvero difficile scostarsi da queste parole, perché "Silent Souls", è un viaggio rituale, un percorso antropologico e affettivo in territori sconfinati, entro linee dettate dal ricordo e dal senso di appartenenza ad un’etnia, o una donna che non ci sono più.
C’è una sinossi, ma ciò di cui si nutre questa pellicola va ben oltre i confini del plot che lo struttura.
Ad Aist, un quarantenne solo, con la passione della fotografia e della ricerca storico-etnografica per la propria comunità merja, viene chiesto di accompagnare Miron, capo della cartiera in cui lavora, nel lungo tragitto per celebrare il rito funebre per la propria giovane ed adorata moglie, Tanya, morta la notte prima.
Preparata la salma seguendo un parallelo ultimo del rito con cui si appronta la sposa alla prima notte nuziale, i due uomini, si avviano in auto verso il lago sacro, luogo prediletto di sepoltura per tutti gli appartenenti alla cultura ormai estinta dei Merja, in compagnia di due zigoli, uccellini giallo-verdi simili ai passerotti, da cui trae il titolo originale la pellicola.
Comuni ed anonimi come gli zigoli, appunto, i protagonisti sono gente semplice, il cui lato ugro-finnico peculiare è nascosto nelle eliche di un dna ormai annacquato dal sangue slavo, sono i residui di un’assimilazione etnica avvenuta da tempo, ma alla quale sono intenzionati a resistere, almeno fintanto che la loro lingua e le loro tradizioni siano ricordate. Da qui una sorta di codice non detto che permette loro di riconoscersi l’un l’altro come Merja, di condividere una malinconica visione del mondo, della vita e del trapasso ed una propensione alla promiscuità, alle passioni celate nel profondo delle loro anime silenziose, da cui il titolo internazionale del film, per una volta appropriato tanto quanto quello originale, seppur così distante. Individui che si collocano in un presente ai confini della tundra, ma che vivono in una sospensione temporale sorretta dall’antica ritualità con cui dichiarano amore per i propri cari, affidandoli alla culla eterna delle acque scure, dopo averne raccontato gli angoli bui, vizi, virtù ed aneddoti carnali, quasi a liberare l’anima della greve passionalità della vita e renderla pura e leggera per l’aldilà.
Poco importa che il corpus mitologico di Silent Souls sia praticamente un’invenzione ex novo di un immaginario collettivo in cui reinserire usi ed appartenenti ad una cultura ormai dimenticata, di cui resta qualche toponimo, soprattutto nei nomi dei corsi d’acqua. La finzione antropologica di Fedorchenko è giustificata, e perdonata, dalla genuinità dell’approccio che il film ha nei confronti dei temi su cui riflette: il ricordo, l’omaggio, l’amore senza fine per la donna perduta come per la propria appartenenza etnica ed i paesaggi immoti della propria storia. Il tutto in una sorta di road movie silente, intimo, dove l’estensione territoriale è smisurata e diretta contraltare del percorso dell’animo, senso stesso della pellicola.
Senza alcun piglio analitico né con intenti melò, lo sceneggiatore Denis Osokin ed il direttore della fotografia Mikhail Krichman consentono al regista di elaborare un tessuto in cui parola ed immagine paiono invertire i propri ruoli convenzionali, per restituire con struggente nostalgia l’elaborazione del lutto attraverso la condivisione umana del dolore, quasi a diluirne la concentrazione e renderlo sopportabile. La parola descrive, visualizza e dà forma ai ricordi, l’immagine racconta e spiega ciò che non c’è più, in una successione di punti che suturano una ferita che non verrà mai rimarginata del tutto se non con la morte stessa. C’è lirismo nel dolore e spiazzante nostalgia nella tristezza, c’è la tenerezza che sublima l’erotismo in amore per la donna, per la femminilità e per il lato materno, generativo ed eterno della natura e c’è la dolcezza infinita per il ricordo ed il passato.
Gli 80 minuti di "Silent Souls" scorrono fluidi, grazie alla regia elegante e minimale di Fedorchenko che, senza virtuosismi, segue con languida pacatezza i propri attori, spesso ricorrendo alla soggettiva, sottolineata dal voice over dell’io narrante.
L’universalità delle suggestioni e la profonda umanità delle riflessioni che questa pellicola riverbera nello spettatore, sono delicate quanto penetranti, s’insinuano sottopelle coadiuvate dalle strazianti noti dello score di Andrei Karasyov, premiate col Nika Awards. Un abbraccio sonoro vibrante che costituisce la musica di un popolo che non c’è, realizzato attraverso la commistione di tradizioni balcaniche, occidentali e siberiane: la musica delle svariate etnie che danno linfa al sangue russo.
Il viaggio di Aleksei Fedorchenko è pervaso da un senso di sacralità e venerazione per il passato dell’uomo e per i suoi sentimenti, un’elegia antropologica dal respiro senza tempo né luogo perché: “Non saprei dire quando e perché questa storia ebbe inizio. Ma ha a che fare con la voglia di capire chi siamo veramente. Perché siamo fatti in un modo piuttosto che in un altro”.

Marta Ravasio



DATA DI USCITA: 25 MAGGIO 2012
Durata: 80 minuti
Distribuzione italiana: MICROCINEMA
Info:
www.silentsouls.it;
http://www.microcinema.eu;

25/05/2012

home news Ciak! Si gira... interviste festival schede film recensioni fotogallery vignette link scrivici ringraziamenti credits

Settimanale di informazione cinematografica - Direttore responsabile: Ottavia Da Re
Testata giornalistica registrata presso il Tribunale di Venezia n. 1514/05 del 28 luglio 2005
Copyright © www.quellicheilcinema.com. Tutti i diritti sui testi e sulle immagini sono riservati - All rights reserved.