La recensione: THE RUM DIARY di Bruce Robinson

Atteso sui red carpet e nelle sale di mezzo mondo dal 2010, finalmente è arrivato sui nostri schermi "The Rum Diary" di Bruce Robinson, che dà vita al romanzo omonimo e farsescamente autobiografico scritto da Hunter S. Thompson nel ’59.
La vicenda ha luogo a Portorico, dove la pellicola è stata effettivamente girata cinquant’anni dopo le avventure narrate da un giovane giornalista statunitense, gran bevitore e senza alcuna cifra stilistica, che si trasferisce in quell’angolo di Paradiso per darsi una nuova possibilità professionale.
Ben presto la monotonia degli incarichi al San Juan Star, giornale il cui scopo non è certo la cronaca politica od il reportage socialmente impegnato, faranno scivolare il protagonista Paul Kemp, in una serie di avventure iperbolicamente alcoliche insieme a Sala, il collega fotografo interpretato da Michael Rispoli, ed al relitto umano ed ex giornalista Moberg, un Giovanni Ribisi talmente in parte da essere repellente dopo trenta secondi dal suo entrare in scena.
La trama decolla nell’istante in cui Kemp, un allucinato e macchiettistico Johnny Depp, incontra e s’invaghisce, con una simultaneità da banale romanzo d’appendice, di una bionda sirena dalle curve mozzafiato e dal broncio scarlatto perennemente a fior di labbra, fidanzata di Sanderson, facoltoso uomo d’affari yankee dagli interessi miliardari, interpretato da un bronzeo Aaron Eckhart, tutto completi di lino, polso di ferro e sorriso letale.
Ben presto e suo malgardo, Kemp si troverà invischiato in affari loschi, illegali e pericolosi di speculazione immobiliare ed appropriamento colonialista indebito di paradiso terreste, il tutto condito da tiramolla ed ammiccamenti amorosi tra il non detto e l’inesistente.
Al termine di rocambolesche vicissitudini, petti virili più o meno gonfiati per difendere od ottenere l’oggetto del desiderio, minacce e ritorsioni sul giornale, fughe, feste e carnevali, nella follia posticcia dei fumi perenni da rum, l’io narrante, Paul Kemp , trova finalmente la propria voce, il proprio stile ed il proprio scopo nell’editoria: denunciare la corruzione e l’avidità dei vari Sanderson che pensano di poter comprare il mondo intero e di essere intoccabili. E da qui, nel film come nella realtà, nasce la personalità e lo stile di quel Hunter S. Thompson conosciuto come l’inventore del “gonzo journalism”.
"The Rum Diary", titolo quanto mai azzeccato, è un film nato per caso, fortissimamente voluto e realizzato come un reverenziale omaggio al suo ideatore, morto nel 2005. Ma da questi tre passaggi, a mio parere, il risultato ottenuto è appena appena sufficiente.
Depp e Thompson sono stati amici per vent’anni, ancora prima di quel cult che è diventato "Paura e Delirio a Las Vegas", il cui soggetto e protagonista rifluiscono sempre a Hunter S. Thompson, e proprio a Depp si deve il ritrovamento, per pura accidentalità, del manoscritto di un romanzo-diario che l’amico scrisse sul finire degli anni ’50 durante una trasferta lavorativa a San Juan.
Subito la pubblicazione e poco dopo la genesi della trasposizione filmica che vede Depp anche nelle vesti di produttore oltre che di indiscusso protagonista. Sulla scia di un tale slancio umano e professionale, però, qualcosa si è perso.
Il film è un omaggio intelligente ed affettuoso a Thompson, si legge, un tributo ad un amico che non c’è più. Peccato che l’adattamento, affidato a Bruce Robinson sia in veste di sceneggiatore che di regista, paia davvero debole, scontato e privo di mordente. Da una dichiarazione di Robinson, si scopre che il suo approccio al lavoro, per pare non volesse dirigere all’inizio, sia stata quella di assorbire il libro e poi di riscriverlo.
Mantenendo solo tre battute scritte da Hunter in tutta la sceneggiatura, salvo asserire di essere riuscito, ciononostante, a scrivere con il suo linguaggio. Sforzo sotteso, non dubitiamo, di grande rispetto ed amore nei confronti della poliedrica personalità allucinata di Thompson, ma il cui esito è deludente, di scarso coinvolgimento e di uno spessore impalpabile. Tutto è frivolo, alcolizzato e troppo leggero, persino per un intrattenimento gonzo, manca il brio, il guizzo di follia o la sostanza celata sotto il velo dissacrante della leggerezza estrema. Non c’è l’esuberanza comica di Raoul Duke ed il lato quasi romantico di Paul Kemp è poco credibile, nonostante la scelta di voler aumentare la tensione drammatica, facendo divenire la donna di cui in protagonista s’innamora, la fidanzata del potente signorotto dell’isola.
Con una regia d’ufficio, Depp si trasforma in Kemp con estrema facilità, non solo perché si tratta di una versione di 15 anni più giovane del protagonista della pellicola di Gilliam del 1998, ma perché, fondamentalmente, è dar vita e omaggio, sullo schermo, ad uno dei suoi più vecchi amici. Allora perché la mimica sopraccigliare e le smorfie, di sorpresa o finto pudore che siano, sembrano mutuate da un Jack Sparrow toilettato? Dove sono le differenze interpretative rispetto al Barnabas Collins di "Dark Shadows"? Spesso si sente dire che il fascinoso Johnny, il cui ciuffo ribelle, falce di luna ad incorniciargli il viso, vale sempre e comunque il prezzo del biglietto, si sia ormai fossilizzato entro uno/due maxi categorie di ruoli e che come impronta di stile ci sia l’esser sopra le righe. Sempre. C’è da iniziar a dare credito ai suoi detrattori?
Resta il suo inattaccabile fisique du role, la capacità fluida di calarsi nella magnifica ricostruzione della Portorico del sogno americano a base di sole, donne, Chevrolet, yacht e ville da sogno, girata languidamente in 16mm, quasi a ricalcare le cartoline degli anni Cinquanta. Tutto è curato con dettaglio maniacale alla verosimiglianza, le locations , sia interne che esterne sono tutte originali ed in loco, niente finzione da studios, e la luce naturale della baia di San Juan dona davvero un allure vintage alla pellicola, entro la quale il cast convincente e d’indubbia bravura, non riesce a dar il giusto respiro ad una storia che stenta a coinvolgere.
In chiusura, finale al limite dell’autocitazionismo in odore di parodia, ben presto cancellato dalle note morbide e dalla voce della poetessa del rock, Patti Smith che, in visita al set, ha lasciato in omaggio una canzone languida e sussurrata, "The Mermaid".

Marta Ravasio

Link al trailer su YouTube: http://bit.ly/IwgGcz



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23/05/2012

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