La recensione: IL MIO MIGLIORE INCUBO! di Anne Fontaine con Isabelle Huppert

“Il mio migliore incubo” (Mon pire cauchemar), presentato all’ultima edizione del Festival del Film di Roma (fuori concorso), è un’esilarante commedia della regista di “Coco Avant Chanel”, interpretata da un’inedita Isabelle Huppert, dall’attore comico Benoit Poelvoorde, conosciuto al pubblico italiano in “Niente da dichiarare?”, e dall’inossidabile André Dussolier, amato volto del cinema francese dall’umorismo sofisticato.
La trama, alquanto prevedibile nel suo dipanarsi, vede una continua contrapposizione tra i personaggi di Agathe e Patrick: lei vive con il compagno ed il figlio in un appartamento prestigioso, lui vive con suo figlio nel retro di un furgone.
Lei dirige una importante fondazione per l’arte contemporanea, lui sbarca il lunario con lavoretti saltuari e con i sussidi dell’assistenza sociale.
Lei ha rapporti stretti con il Ministero della Cultura e delle Arti, lui ha rapporti stretti con ogni singola bevanda alcolica che gli capiti a tiro.
A lei piace il dibattito intellettuale, a lui piace il sesso occasionale con donne a buon mercato. Sono agli antipodi, non sopportano la vista l’uno dell’altra e non avrebbero mai dovuto incontrarsi, ma i loro figli sono inseparabili e le occasioni di frequentazione iniziano ben presto a diventare innumerevoli.
“Alla fine, capiranno una volta per tutte il perché…” Con questa frase si conclude la sinossi de “Il mio migliore incubo” contenuta nel materiale stampa con cui si viene accolti alla proiezione, e proprio con un “perché?” stampato in volto lascio la sala dopo 99 minuti durante i quali si ride spesso ed altrettanto spesso si sfiora la repulsione al pensiero del rozzo Patrick che sfiora Madame Huppert.
Perché mai i due protagonisti s’attraggono e si frequentano sino a divenire una coppia? Com’è mai possibile che dopo tutti i tira e molla di rito si arrivi all’happy end? “Alla fine, capiranno una volta per tutte il perché…” Bene, che qualcuno abbia la compiacenza di fornirci delucidazioni in merito.
Tutta la pellicola è costruita, gioca, omaggia e si rilassa sui clichè, vuoi in termini di personaggi che di meccanismi della commedia romantica, quindi è palese che i protagonisti subiranno un totale stravolgimento di loro stessi fino ad arrivare a desiderare di stare insieme a discapito di tutto e tutti. Ma nel caso specifico della pellicola di Anne Fontaine, tutta questa ovvietà non trova alcuna giustificazione.
In un’intervista la regista afferma di essersi basata, per elaborare il soggetto del film, su un’esperienza personale accadutale qualche anno fa, quando il figlio le portò a casa un amico che veramente sembrava di un altro pianeta, il cui padre era di una stravaganza tale da indurla a riflettere sulle differenze di classe e di rapporti genitoriali. Da qui sarebbe poi partita per sviluppare la parte fiction che, a parer suo, si tratta di una storia d’amore sullo sfondo di un conflitto di classe che sarebbe del tutto improbabile nel mondo reale ma che trova una sua raison d’être nei registri utopici della commedia. Ecco, utopia è un termine che reputo piuttosto adatto all’avvicinarsi dei personaggi interpretati da Madame e da Benoit Poelvoorde. Sulla bravura e sull’efficacia interpretativa dei protagonisti – tutti- non c’è alcun dubbio, ma i ruoli che sono chiamati ad incarnare hanno una tale rigidità di scrittura, che sfociano nello stereotipo o persino nella macchietta, in più di un’occasione, senza però che ci sia un intento di satira o di critica acuta del sociale.
C’è davvero da credere che la glaciale Agathe, palesemente isterica e maniaca del controllo su se stessa quanto sul prossimo, possa provare un’attrazione credibile per quel rozzo parassita che è Patrick? Si scopre forse essere un uomo di tutt’altro spessore di quanto non appaia ad un primo approccio? La loro relazione, strampalata ed altalenante come da cliché, appunto, smuove veramente i personaggi al di fuori dei binari esistenziali sui quali stagnavano inconsciamente? No, nessuno dei suddetti interrogativi può avere una risposta affermativa.
Se la prima notte tra i due è ampiamente giustificata dall’alcol, lo shock del giorno dopo e il relativo allontanamento sono passaggi obbligati del genere, cosa poi li attragga e li tenga insieme è del tutto incomprensibile. Agathe vive con freddezza ed incuranza totali la nuova relazione dell’ex compagno, meravigliosamente incastrato con una trentenne folle ed ecofriendley, della serie “come ti faccio pagare la scappatella della crisi di mezz’età”, avrà pensato la Fontaine durante la stesura dello script. E con la stessa incuranza vive la sua frequentazione, più o meno, occasionale con Patrick, e nulla cambia nel suo personaggio se non forse l’indossare i jeans o giocare col figlio a monopoli o in un parco di divertimenti. Sarà più presente nella vita del ragazzino, certo, e magari inizia a trovar noiosa la filosofica esegesi cromatica dei pomodori, ma si ha la sensazione che il suo personaggio resti al palo, quasi che non aspetti altro che scrollarsi la polvere dal cappotto. Lo stesso si può dire del coprotagonista, che svela qua e là episodi più o meno sciocchi o irresponsabili del suo passato, ma la sensazione, in questo caso, è che gli facciano più gola i 200mq sui Giardini di Lussemburgo che la rinata Agathe. Una sceneggiatura lacunosa che si regge su un turbinio di gag e su un ritmo comico talmente sostenuto da farti sorgere un dubbio: sarà che così non m’accorgo, tra una scena trash ed una vista e rivista, che la storia non ha né capo né coda?

Un vero peccato, perché Isabelle Huppert, poco avvezza al genere della commedia, rivela un’acume formidabile in questo ruolo, ed è sufficiente un suo inarcare il sopracciglio per inchiodarti alla poltrona o per strapparti una sincera risata.

Marta Ravasio

Il trailer: http://youtu.be/PvI_dZJ3f6E




28/03/2012

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