CANNES: TERZO GIORNO DI CONCORSO
“Push”!!... Bisogna saper spinger fuori noi stessi dalle costrizioni di una realtà brutale e disillusa, che ci incatena spesso ad una vita che non ci siamo scelti, se vogliamo percorrere quella strada che ci condurrà a trovare il nostro posto nel mondo. Lo fanno con grande coraggio e volontà d’affermazione, non priva di indicibili sofferenze, gli adolescenti protagonisti di “Precious” e “Samson & Delilah”, pellicole presentate in questo terzo giorno del festival in - un certain regard - ed accolte con una standing ovation.
Il regista Lee Daniels dirige Gabourey Sidibe, attrice ventiseienne qui al suo debutto nel cinema, che interpreta un’adolescente di dieci anni più giovane di lei, schiacciata non soltanto dai suoi cento e passa chili di peso, ma da un fardello – il secondo già – prova tangibile degli abusi sessuali che è costretta a subire da parte di suo padre sin dalla tenerissima età di tre anni; sotto gli occhi di una madre che non soltanto non la protegge come ci si aspetterebbe, ma la svilisce continuamente dinnanzi ai suoi futili tentativi di nobilitare sé stessa attraverso l’istruzione.
Nonostante la sue età Precious, non è ancora in grado di saper leggere e scrivere e, a causa di queste gravi lacune, non vi è posto per lei tra ragazzi di una scuola “normale” dove viene vista come un essere alieno. Sarà grazie all’intuizione di un’insegnante (ruolo che permette a Mariah Carey una nuova incursione nella settima arte) che con solerte pazienza non smetterà mai di esortare la ragazza a percorrere quel difficile cammino a cavallo tra conoscenza scolastica ed autocoscienza di sé, al fine di poter rompere proprio quelle catene – tra brutalità paterna e la rancorosa disillusione materna – che l’avrebbero altrimenti ghettizzata per il resto della vita, senza nemmeno la parvenza di un tentativo.
Basato sull’opera fortemente aderente alla realtà della poetessa Sapphire e già premiato al Sundance; “Precious” fa breccia nel cuore degli spettatori con un tema che lo scorso anno, proprio qui a Cannes, regalò a Cantet – seppur nel concorso principale – il premio più ambito al suo film “La Classe” … Che sia di buon auspicio?!
Da Harlem, spostiamo il nostro sguardo che si apre sugli scenari più selvaggi dell’Australia raccontata dal regista Warwick Thornton, attraverso la storia d’amore di “Samson & Delilah”. Il regista ammette di aver vissuto in prima persona molte delle situazioni al limite e delle vicissitudini dolorose con le quali i suoi due giovani protagonisti sono costretti a confrontarsi: in una realtà ai margini come quella che egli stesso traspone sulla pellicola, purtroppo certe cose si danno per scontate se non addirittura assodate. Per Thornton – come fu per Truffaut ai suoi tempi – il cinema è stato il mezzo grazie al quale si è affrancato da una tale miseria.
Samson conosce Delilah quando questa vive ancora in una baracca con la nonna che accudisce e dalla quale impara a dipingere delle splendide tele naif che però non le permettono di raggranellare molto. I due presto s’innamorano e alla morte della nonna di lei fuggono in città dove però li attende un futuro ingrato e privo di prospettive: lei verrà violentata e lui rischierà la vita a causa della sua tossicodipendenza. Nonostante tutto, Delilah incredibilmente non accetta la resa e ricomincia nuovamente tutto da capo; sempre con lui e con l’intento di portare a termine, tra le mille fatiche quotidiane che Samson non accenna ad alleggerirle, la tela iniziata in precedenza dalla nonna.
Anche in questo film - come in altre pellicole interessanti pellicole presentate qui a Cannes in questi primi giorni della kermesse nelle diverse sezioni – ritroviamo due giovanissimi protagonisti che, grazie anche all’inesauribile forza dirompente dell’amore, trovano la insperate energie per sovvertire il cinico fatalismo di una realtà avvilente, in una visione di possibilità e speranza per l’avvenire.
Se da un certain regard ci giunge un forte messaggio di apertura verso il futuro, sebbene di partenza vi sia un presente martoriato; di tutt’altro avviso è invece Jacques Audiard ( “Sulle mie labbra” e “Tutti i battiti del mio cuore”) che in “Prophète”, presentato oggi in concorso, ci racconta l’ascesa malavitosa di Malik in una realtà carceraria dove sangue chiama sangue e l’unico modo di sopravvivervi è quello di rispondere.
Volto semisconosciuto quello del talentuoso attore Tahar Rahim che interpreta Malik, un ragazzo diciannovenne di origini arabe, analfabeta, senza famiglia, del quale non sappiamo molto prima che venga incarcerato; ma quest’ultimo aspetto poco importa ai fini di quel che Audiard si accinge a raccontarci, nel ritratto di un mondo che, chiuso dietro le sbarre, sopravvive alla realtà esterna con delle regole proprie e, entro il quale, non vi è possibilità di crescita, figuriamoci poi di redenzione.
Utilizzando con intelligenza dinamiche e meccanismi narrativi del cinema di genere – non solo carcerario – che Audiard dimostra di padroneggiare con sapienza alla ricerca di soluzioni che, non si limitino alla mera riproposizione, ma con un occhio teso alla sperimentazione, sebbene non giunga all’innovazione; il primo film francese a scendere in campo è stato accolto – come molti per altro già si aspettavano – con applausi scroscianti in sala.
Con una macchina da presa davvero molto mobile il regista francese è sempre pronto a tallonare il suo protagonista che, deciso a non rimanere ai margini di un ingranaggio solo inizialmente ed apparentemente più grande di lui; ne comprende rapidamente le regole, volgendole a suo favore affermando così definitivamente il proprio passaggio da piccolo criminale, senza radici di razza o di clan che vuol solo sopravvivere, a nuovo indiscusso padrone quando gliene si presenta l’occasione. Malik riuscirà così soltanto ad accentuare ed indurire quei lati criminosi della sua personalità, generati dal proprio vissuto personale fuori dal carcere prima ed in carcere poi, che una pena detentiva per quanto possa essere un’esperienza dolorosa ci si auspichi possa o per lo meno tenti di correggere.
Ilaria Serina
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