Bright Star di Jane Campion
CANNES: SECONDO GIORNO DI CONCORSO
Dal romanticismo poetico di Keats ad opera di Jane Campion, all’incursione di Ang Lee in un evento epocale come il concerto di Woodstock, fenomeno della controcultura hippie americana - e non solo - degli anni settanta …. Cannes, al secondo giorno di concorso, cambia nuovamente volto e raddoppia con “the women in red” Monica Bellucci e Sophie Marceau che però non convincono affatto la critica.
Midnight Screenings
La regista Marina De Van dirige l’attrice francese Sophie Marceau e Monica Bellucci (che nel 2003 fece da madrina all’evento e, dopo un’apertura di cerimonia in veste di attrice italiana, nella serata conclusiva di premiazione si ripresentò sul medesimo palcoscenico definendosi attrice transalpina!... Amore per l’affascinante marito Vincent Cassel di cui oramai condivide la nazionalità o semplice snobismo da star?! ) in un thriller psicologico con “venature horrorifiche” dal titolo “Ne te retourne pas”.
Jeanne, interpretata dalla Marceau, è una donna francese alle prese con ambizioni letterarie, un libro non pubblicato, una vita privata che sente scivolarle progressivamente tra le dita e che non riconosce più come sua: tanto da spingerla a con la propria esistenza prendere il volo per l’Italia nel tentativo di ritrovare il bandolo della matassa di un’infanzia rimossa, tra gli scenari barocco-mediterranei in quel di Lecce, dove oramai i lineamenti della Bellucci hanno trasfigurato il suo volto. Dopo ritrovati legami famigliari, il pericolo di un rapporto incestuoso sfiorato e la danza della taranta utilizzata come possibile esorcismo; Jeanne si riappropria delle sue fattezze/sembianze e tenta di riconciliarsi con la propria esistenza, tornando a casa …. Ma si sa, una volta che “l’altra” è entrata nella tua vita difficilmente se ne riprende il pieno possesso!
Conferenza stampa piuttosto tesa per le due protagoniste e la regista, che sono state subissate da fischi e risate alle proiezioni per la stampa; ma Monica Bellucci non è nuova ad accoglienze polemiche e pareri contrastanti riguardo alle pellicole da lei interpretate e presentate sulla Croisette negli anni (basti pensare a “Irrevérsible” di Gaspar Noè). Attende quindi fiduciosa la proiezione per il pubblico, che è poi l’unico in grado di sancire il reale successo o insuccesso del film …. E il responso non si fa attendere, sebbene after midnight: pur non affossando il lavoro della De Van, rimane piuttosto tiepido dinnanzi alla seppur bella trasformazione andata e ritorno: Marceau-Bellucci / Bellucci-Marceau.
Concorso
Sono i sogni e le speranze di un’intera generazione decisa a gridare al mondo la propria volontà di rinfrancarsi da una realtà politica opprimente - scandita dalle morti in Vietnam o dalle tensioni in Medio oriente, incapace di guardare al futuro se non per le spedizioni sulla Luna – quella che rivive in “Taking Woodstock” del taiwanese/americano Ang Lee. Nei giorni di un lontano agosto del 1969 (15-18 per l’esattezza), scanditi a suon di musica, tra consumo di LSD, vestiti hippy ed amore libero, quattrocentomila persone si resero allora inconsapevoli protagonisti di un evento che rimane tutt’ora un simbolo e del quale non è poi così scontato rivangare il ricordo … Non si è aperto forse questo terzo millennio in un clima di paura dettato da attacchi terroristici che hanno avuto come unico effetto altre guerre; in un assetto economico mondiale talmente in crisi, da lasciare pochi margini di speranza per chi attende di costruirsi un futuro che si basi su di una qual si voglia certezza?!
Pur riconoscendo le implicazioni implicite nelle quali inevitabilmente ci s’imbatte quando s’affronta la trasposizione cinematografica di un evento realmente accaduto e per di più con una tale portata evocativa, tanto da divenire per l’appunto un simbolo sino ad ora in tal senso ineguagliato; Ang Lee rifugge però i toni nostalgici della mera rievocazione delle illusioni perdute e lascia l’approccio politico/musicale sullo sfondo, a favore dei toni più leggeri della commedia, per focalizzare la propria attenzione sull’atmosfera più privata e personale del suo protagonista Elliot Tiber (interpretato da Demetri Martin): attraverso l’esperienza che egli stesso farà in prima persona noi rivivremo le atmosfere e gli accadimenti di quei giorni del ’69.
Quella di Elliot è infatti una storia vera: fu lui a vendere la propria licenza per un festival estivo di arte e musica a Micheal Lang e agli altri disperati organizzatori della Woodstock Ventures, quando questi si videro revocati i propri di permessi nella contea di Orange. Al suo romanzo autobiografico e al documentario che uscì nel 1970, “Woodstock – Tre giorni di pace, di amore e di musica” di Michael Waldeigh ; “Taking Woodstock” deve molto della sua ispirazione sia a livello narrativo, che stilistico/formale.
Come tutte le storie di crescita nella ricerca di sé e della propria affermazione individuale; quella che si presenta ad Elliot - attraverso lo storico concerto - è l’occasione di liberarsi dell’opprimente ed incombente presenza genitoriale (Henry Goodman, il padre e Imelda Staunton, la madre) per la quale sino ad ora ha dovuto rinunciare alle proprie inclinazioni artistiche … e non solo , per riscattare dalle ipoteche un motel malandato a White Lake, nei pressi diBethel, nello stato di New York.
Chissà quante individualità - come quella di Elliot - hanno trovato in quei pochi giorni, tra la folla delle utopie, la propria identità – spesso anche sessuale - tentando poi di mantenerla nel corso degli anni a venire: come ad esempio il transessuale ex macho e marine Vilma, interpretato da Leiv Schreiber ( “Defiance-I giorni del coraggio” ) o il traumatizzato veterano del Vietnam che ha il volto di Emily Hirsch ( “Into the wild” ) … Per quanto utopica ed idealizzata, in fondo l’immagine di un’epoca è pur sempre il ritratto d’insieme di singole realtà, anche quando ai nostri occhi, oggi , quelle quattrocentomila ci possono apparire come una soltanto sotto il medesimo nome: Woodstock!
Torna a distanza di sedici anni (l’ultima volta era il 1993 e grazie al suo “Lezioni di Piano”, Cannes la consacrò con la Palma d’Oro); ora ha cinquant’anni, lunghi capelli bianchi e la voglia di far riscoprire al suo pubblico il valore della poesia, la forza creatrice e spesso dirompente, talvolta dolorosa, dei sentimenti. Jane Campion, regista che ha saputo in più occasioni tratteggiare abilmente l’intricato e fragile universo femminile attraverso protagoniste però di rara forza, torna al film in costume, questa volta intrecciando indissolubilmente la vicenda di due amanti: John Keats, poeta romantico scomparso prematuramente a causa della tubercolosi, il cui talento rimase a lungo incompreso e Fanny Brawne, la musa che gli rubò il cuore nell’arco della sua breve e tormentata esistenza.
“Bright Star”, che si avvale di due validissimi interpreti - l’attore teatrale britannico Ben Whishaw (“Io non sono qui”) e l’attrice australiana Abbie Cornish (“Paradiso+Inferno”) - non vuole essere un biopic; ma semmai un affresco d’epoca nell’Inghilterra dei primi vent’anni del XIX secolo ed un’esortazione alle nuove generazioni – in un tempo in cui il comune senso del pudore viene meno non soltanto in pubblico, ma anche nel privato – a riscoprire e a riappropriarsi del romanticismo di sentimenti autentici, in grado di sovvertire regole, rompere schemi prefigurati e scavalcare barriere che senza di esso rimarrebbero invalicabili …. E la poesia in tal senso è un potentissimo mezzo di comunicazione! Proprio da un poema di Keats, Jane Campion prende a prestito il titolo per il suo film in concorso che, se è pur vero che è stato accolto in sala con calorosi applausi; lascia forse perplessi – specialmente gli estimatori della regista – dinnanzi a qualche lungaggine di troppo e all’utilizzo di alcune scelte scontate che, a livello formale, non permettono la piena riuscita del film, intrappolandolo nella ristretta classificazione di melodramma sentimentale …. O forse, più semplicemente – come presumiamo fosse negli intenti della regista neozelandese – Jane Campion ha tessuto una trama impalpabile e delicata, capace di ricreare quell’atmosfera degna della forza evocativa delle parole di Keats e che perciò ad una prima visione, se non attenta, può sfuggire ad un pubblico i cui occhi sono inebetiti da troppi blockbuster movie.
Ilaria Serina
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