A Cannes, fra triangoli amorosi, vampiri e bambole gonfiabili...

Una calda brezza soffia dall’estremo oriente e porta a Cannes, nel suo primo giorno di concorso ufficiale, complicati triangoli amorosi, uomini di chiesa consacrati alla scienza e resuscitati romantici vampiri e bambole gonfiabili che si scoprono esseri pensanti, con un cuore e un’anima.

Reduce dalla sua acclamata trilogia della vendetta e da sempre innamorato dei film sui vampiri, il regista coreano Park Chan-wook firma “Thirst”, mantenendosi però lontano dai più classici canoni del genere horror nel quale spesso ci troviamo ad incasellare, di primo acchito, questo tipo di storie.
Padre Sang-Yyun decide d’immolarsi per il prossimo testando su di sé il vaccino per un potente virus che di fatto finisce per ucciderlo … Ma la sua fede ed un altro tipo di virus – quello del vampirismo – lo restituiranno ad una nuova vita, pronto a dispensare miracoli, certo, da uomo di chiesa qual è, ma anche spinto da una bruciante sete prima d’ora sconosciuta: quella per il sangue … ed il sesso. L’amore ricambiato per la moglie di un suo amico d’infanzia, porteranno infatti padre Sang-Yyun a misurarsi con tutta quella gamma di sentimenti, desideri e sensazioni legati al mondo dell’eros che, sebbene come essere umano conosceva, come uomo di chiesa era stato sino ad ora costretto ad ignorare se non addirittura a reprimere. La figura del vampiro, con tutte le implicazioni narrative che ne derivano, sono per Park Chan-wook una valida metafora per affrontare temi come: l’amore di coppia, tra levità e tenerezza del sentimento romantico, bramosia nel desiderio sessuale e la naturale egoistica necessità d’appartenersi l’un l’altro; ma vi ritroviamo anche interessanti riflessioni sulla volontà di redenzione attraverso gesti di carità e compassione per chi si ama.

Meno riuscito invece il tentativo del regista cinese Lou Ye, nella sua interpretazione di alcuni dei temi principali toccati dal collega coreano. Cercando di districarsi in un ingarbugliato intreccio amoroso che mal si dipana nel corso di una primavera; Lou Ye vuol restituirci, in “Spring Fever”, la sua visione di un paese ancora fortemente repressivo ed omofobo. Sino al 2001 infatti l’omosessualità era considerata in Cina una malattia mentale, afferma il regista, che per essersi presentato a Cannes nel 2006 con “Summer Palace”, pellicola impegnata sugli accadimenti di Tienammen, ha attenuto dalle autorità di Pechino un divieto quinquennale a realizzare qualunque altro film.
Tutto ha inizio con i sospetti di una donna sulla possibile relazione extraconiugale del marito. Decisa a non ignorare la cosa, assume un investigatore privato che ne scopre così l’avvenuto tradimento omosessuale. La relazione tra i due uomini cesserà, ma l’incontro con l’amante sarà fatale per l’investigatore scatenando un’attrazione inaspettata e recondita che metterà a repentaglio la sua relazione eterosessuale con la fidanzata.
Al di là di un erotismo esplicito, consumato in clandestinità attraverso relazioni complicate e morbose, “Spring Fever” vorrebbe poter mettere in evidenza l’intollerante realtà sociale e politica cinese dove è pressoché impossibile ricercare un’identità individuale da poter esprimere liberamente alla luce del sole. Probabilmente l’unica reale testimonianza che ci giunge in tal senso da Lou Ye è proprio data dal fatto che egli abbia girato a suo rischio e pericolo, insieme all’intera troupe ed il cast, questo film, nascondendosi continuamente agli occhi intolleranti di un regime di censura che ovviamente non ne permetterà la distribuzione.

Per chi aveva già avuto modo di apprezzare le strampalate, ma profonde “vicende amorose” di Lars Lindstrom, alle prese con le pressanti attenzioni della famiglia prima e dell’intera comunità in seguito, per farlo uscire dalla sue personale introversione e propensione alla solitudine, arriva dal Giappone “Air Doll” di Kore-Eda Hirokazu. Il regista nipponico ribalta il punto di vista a favore della bambola gonfiabile Nazomi, che per quest’occasione ci verrà restituita sullo schermo in carne ed ossa dell’attrice Bae Doo-Na.
Nazomi, compagna di un uomo di mezza età, ascolta tacitamente i suoi soliloqui ed accetta passivamente ogni rapporto con lui, soddisfacendo così le poche aspettative che egli oramai ripone in un rapporto a due. Un bel giorno però, un improvviso alito di vita permetterà a Nazomi di aprire gli occhi sul mondo circostante: inizierà a voler scoprire la realtà che la circonda, si troverà un lavoro e proverà anch’essa dei desideri, scoprendo per tanto di possedere un cuore, innamorandosi di un commesso di blockbuster; il quale le/ci ricorda che i film andrebbero visti al cinema e che i dvd non sono che meri sostituti, incapaci di regalarci le medesime emozioni dell’esperienza in sala.

La regista inglese Andrea Arnold ritorna a Cannes - dopo l’esperienza di “Red Road” che nel 2006 le aggiudicò il Gran premio della Giuria - con “Fish Tank”, film che racconta la rabbia e la fragilità di un’adolescente inquieta, ribelle, dai difficili rapporti interpersonali, che trova un alito di pace solo tra le movenze del ballo rap: passione liberatoria che spesso pratica lontano dagli occhi di tutti.
Figlia della working class britannica, Mia, che ha il volto dell’intensa e carismatica attrice esordiente Katie Jarvis sul quale si regge l’intero film, si lascia coinvolgere in un difficile ed ambiguo rapporto con il nuovo compagno della madre, Connor, interpretato da Michael Fassbender, protagonista lo scorso anno, proprio qui a Cannes, del film “Hunger”di Steve McQueen.
Le implicazioni disastrose di tale rapporto Andrea Arnold ce le racconta con uno stile che ricorda molto il primo Ken Loach; con una macchina a mano che raccoglie l’eredità stilistica della Nouvelle Vague e non abbandona mai la propria protagonista, seguendo così le tappe di un difficile e doloroso percorso di crescita personale, spesso dettato da scelte infelici, in una realtà circostante che la regista non dimentica di restituirci come fredda, desolante e povera di punti di riferimento concreti sui quali poggiare per un futuro che non sia per forza già predefinito e scontato.

Quinzaine des Réalisateurs
Dopo aver rifiutato le montées des marches in una serata di gala che di fatto sarebbe stata a lui dedicata, ma che non lo avrebbe inserito nella competizione ufficiale – cosa che invece si auspicava sin dall’inizio - Francis Ford Coppola ha infine deciso di accettare più che di buon grado di presentare “Tetro” - sua ultima pellicola che lo vede anche autore e produttore - in un’altra sezione del festival che, per un’opera più piccola, personale e sentita in cui ritorna al bianco e nero, reputa più consona agli intenti autoriali ed espressivi del film. Oramai settantenne, Coppola dichiara che i suoi “passatempi da pensionato” rimangono comunque nell’ambito del cinema ed ispirandosi a cineasti che ne hanno scritto la storia ( al pari di lui! ) come Bresson, Kazan o Kurosawa, si concede ora “il lusso” di abbandonare le mega produzioni, per concentrarsi nella realizzazione di film d’essai; perché attraverso l’incessante ricerca artistica e la passione per l’evoluzione tecnologica che ne permette la crescita, ci si mantiene giovani e costantemente tesi verso il futuro, dove ancora c’è molto da dire. E di tensioni e ricerca artistica certamente parla “Tetro”, ambientato in Argentina, terra di emigranti, moltissimi dei quali con radici italiane, dalla quale Coppola rimase affascinato poco più di dieci anni fa in occasione di una sua visita che lo vedeva presente ad un festival, in veste però di semplice accompagnatore di sua figlia Sofia.
Tetro, dal quale prende titolo il film, ha il volto interessante dell’artista d’avanguardia Vincent Gallo: cresciuto in una famiglia di musicisti dalla quale decide di allontanarsi per provare a dar voce alle proprie aspirazioni di scrittore, Tetro si ritroverà suo malgrado faccia a faccia con il fratello minore Bennie, che riporterà a galla inconfessabili segreti, riaprendo così ferite mai sopite del tutto e vuoti ancora da colmare.

Un certain regard
Il regista kurdo-iraniano Bahman Ghobadi ( “il tempo dei cavalli ubriachi” ) ci porta nel sottosuolo di Teheran, in un viaggio tutto musicale alla scoperta di una realtà celata, ma quanto mai viva e pulsante, capace di raccontare con caparbietà e coraggio la situazione politico/sociale contraddittoria e repressiva nella quale molti giovani si trovano costretti a vivere faticosamente, sgomitando, senza una reale possibilità di prospettive e di crescita verso un futuro con il quale è annichilente confrontarsi.
“Nessuno sa niente dei gatti persiani”, questo la traduzione letterale del titolo del film scritto a più mani da Ghobadi con Hossein M. Abkenar e la fidanzata Roxana Saberi ( giornalista iraniano-americana accusata proprio dal regime di Teheran di spionaggio a favore degli Stati Uniti; ma recentemente rilasciata dopo un lungo processo ), che però non si è presentata al festival.
Girato in soli 17 giorni con una piccola telecamera digitale - poiché ad un regista come Ghobadi, regolarmente boicottato e censurato nel suo paese, la pellicola, che è proprietà dello Stato, non viene concessa nella maniera più assoluta – il film racconta la piccola odissea dei due protagonisti Ashkan e Negar, personaggi di finzione, in un’incursione totalmente documentaristica. Decisi a procurarsi passaporti e visti per espatriare dove potranno coltivare il loro sogno per la musica; Ashkan e Negar vengono accompagnati da Nader attraverso la città intera, sebbene negli angoli più nascosti, pronti a reclutare nuovi validi elementi per la band disposti a seguirli fuori dagli angusti spazi nei quali sono stati confinati.
Ghobadi si conquista così, con un’opera vera e convincente, molti entusiastici consensi sulla Croisette al secondo giorno del festival: il primo della competizione.

Ilaria Serina

Sito ufficiale: www.festival-cannes.com

19/05/2009

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