Ritratto a Carbone

Da Milano a Parigi, dai primi passi in Scala al successo nell’olimpo dell’Opéra National. Primo ballerino del tempio musicale francese, Alessio Carbone racconta se stesso, i suoi inizi, la sua vita nella ville lumière



PARIGI – Mancano poco più di quattro ore all’inizio degli spettacoli serali, per l’Opéra di Parigi. Si portano in scena La dama delle camelie di Neumeier allo storico Palais Garnier e un programma dedicato alle coreografie di Maurice Béjart nella nuova Opéra Bastille. Ma gli ingranaggi che muovono una delle istituzioni teatrali più importanti nel mondo non si fermano: le prove proseguono, il lavoro continua, il flusso energico che attraversa il palazzo dell’Académie Nationale de Musique non si arresta.
Alessio Carbone ha interrotto da poco le prove. Ci sediamo accanto ad una delle sale dell’Opéra Garnier – due divani e un posacenere sotto una finestra – per una chiacchierata informale prima degli appuntamenti con le recite del giorno (io in platea a Garnier per la prima della coppia Eleonora Abbagnato e Benjamin Pech in La dama delle camelie, lui in scena a Bastille con il trittico che include Le Mandarin merveilleux, Variations pour une porte et un soupir e Boléro di Béjart).
Alessio ha ottenuto la nomina a Primo ballerino nel dicembre del 2002, vincendo la resistenza emotiva storicamente manifestata dall’Opéra parigina di fronte ad ammissioni non francofone. Il suo repertorio include coreografie di Balanchine, Forsythe, Preljocaj, Kylián, passando per Nureyev (è stato Romeo nel pas de deux “del balcone” accanto a Elisabeth Maurin) e Mats Ek.
I corridoi del Palais Garnier sono praticamente deserti. Da uno degli studi vicini arriva a ripetizione la musica del pas de deux del terzo atto di Don Chisciotte; il rumore della vita che scorre fuori, su Place de l’Opéra, neanche si sente.


Sei attualmente l’unico italiano a detenere il titolo di Primo ballerino qui all’Opéra… perché il distacco dalla Scala e la partenza per Parigi?
La Scala è il teatro in cui posso dire di essere cresciuto, dal punto di vista artistico. La mia partenza da Milano e il conseguente distacco non sono stati venati di polemica. La decisione è stata autonoma… anche se non facile. La mia è una famiglia di artisti di danza, come sai, e mio padre (Giuseppe Carbone, ndr) è stato tre volte direttore del Corpo di ballo scaligero. Dopo il diploma sono entrato subito in compagnia, alla Scala, iniziando anche molto presto a ricoprire ruoli da solista. Il desiderio di nuove esperienze, comunque, c’era… c’è sempre stato! Ho preso il primo contatto con l’Opéra di Parigi a diciannove anni… lo ricordo molto bene. Avevo ottenuto dalla Scala qualche giorno di permesso: dovevo sostenere l’esame di maturità… ero alle prese con lo studio. Una mattina, approfittando di qualche momento libero, ho telefonato all’Opéra, semplicemente per chiedere informazioni sulle audizioni o sulle possibilità di entrare in compagnia. E ho scoperto che il concorso era imminente… ma non ti parlo di mesi… di giorni! Così in pochissimo tempo ho sbrigato tutte le formalità per l’iscrizione; mi hanno spedito il video con le variazioni che avrei dovuto studiare ed eseguire in sede di selezione – e i tempi della spedizione hanno accorciato ulteriormente quelli a disposizione per prepararmi –. Quando ho saputo d’essere stato preso, sono partito senza esitazioni… nonostante i pareri contrastanti che mi sono arrivati.

Pareri contrastanti?
Sì, anche in famiglia… mia madre (Iride Sauri, ndr) era anch’essa ballerina. Diciamo che, senza drammatizzare, non tutti hanno accolto subito e serenamente la mia decisione di lasciare Milano per trasferirmi a Parigi. Ero molto giovane, e tutto era avvenuto all’improvviso, in fretta… il concorso, intendo, la mia ammissione al Ballet de l’Opéra… Sono stato invitato a pensare seriamente alla possibilità di abbandonare la Scala per ballare all’Opéra… di rinunciare ad una situazione che conoscevo e in cui mi trovavo bene. Qualcuno mi ha chiesto più volte se ero sicuro di quello che facevo; voglio dire… ero già in Scala, già iniziavo a ricoprire ruoli importanti… escludendo bruschi cambiamenti, qualcuno prevedeva per me buone possibilità di carriera a Milano, inclusa la nomina a Primo ballerino. Scegliendo Parigi, sceglievo un teatro e un mondo che non conoscevo, una compagnia di ballo più grande, celebre per il suo stile e annoverata fra le più prestigiose nel mondo in assoluto… le possibilità di carriera non sarebbero state altrettanto facili. Non ho mai avuto dubbi forti, in ogni caso. Quando ho deciso di accettare il contratto all’Opéra, tutti in famiglia mi sono comunque stati vicini e mi hanno appoggiato. I consigli di mio padre e di mia madre mi sono sempre utili… la loro esperienza e il loro sostegno restano un valido punto di riferimento.

Hai fatto in tempo ad essere diretto da tuo padre, in Scala?
No, io no. Ma mia sorella Beatrice (oggi solista della compagnia scaligera, ndr) sì. E non credo sia stato facile… poteva capitare che qualcuno vedesse, dietro l’assegnazione di un suo ruolo, il fatto d’essere la figlia di Carbone. Anche per mio papà credo ci siano stati dubbi a volte… e la conseguenza poteva essere quella di non valorizzare abbastanza Beatrice, imponendosi un’eccessiva severità e precludendo così la possibilità di effettuare preferenze…

Come vedevi la situazione scaligera? La compagnia ha meno spettacoli rispetto ad altre nel mondo…
È vero, anche se non mi sono mai trovato male. Il lavoro è diverso, la situazione è diversa… ci sono pochissimi étoile e pochi primi ballerini. Qualcuno accusa anche un livello qualitativo inferiore delle produzioni… Ma non è una questione facile da sviscerare. Già un numero ridotto di spettacoli non rappresenta una buona partenza. Soprattutto negli anni passati è capitato che a Milano il balletto rimanesse schiacciato sotto il peso delle numerosissime recite di opera; la conseguenza è ovvia… meno balli, meno occasioni hai per maturare, crescere, percorrere insomma la parabola dell’evoluzione artistica che tutti seguiamo. Considera però anche il fatto che i direttori del corpo di ballo si susseguono in Scala con rapidità superiore rispetto ad altre compagnie. Restando in carica per un periodo di tempo limitato un direttore ha meno possibilità di lasciare la sua impronta, di pensare a un rinnovamento sul lungo periodo… e allo stesso modo di valorizzare e spingere avanti ballerini e ballerine in cui crede. Quando la persona che dirige cambia - si sa - cambiano i gusti e i criteri di valutazione.

Mentre le prime esperienze qui a Parigi come sono state?
Ammetto che appena arrivato a Parigi non avevo assolutamente le idee chiare sulla possibilità di restarci per sempre; in fondo, a darmi coraggio era un po’ anche la possibilità di lasciare dopo qualche anno per tornare a Milano… sarebbe stata comunque una bella esperienza, mi avrebbe arricchito sul piano personale e su quello artistico. Qui all’Opéra mi sono trovato bene, in ogni caso. Non voglio dire che sia un ambiente facile, assolutamente… rigore, disciplina ferrea e competizione restano sempre alte. Lo si sente dire ed è vero: se non sei forte all’Opéra finisci per andar fuori di testa. Ma ho preso bene il lavoro in compagnia e tutto quello che ne conseguiva. Qui il metodo di lavoro e lo stile sono diversi. La mia formazione era fortemente basata su una tecnica di stampo russo… a Parigi la perfezione delle posizioni dei piedi, dei movimenti della gamba era ed è particolare, tipicamente francese. Il mio metodo e le mie caratteristiche erano (almeno in parte) dissimili. Ho lavorato parecchio su tutti questi aspetti, certo, ma nello stesso tempo sono stato invitato a non perdere l’impronta artistica con cui ero arrivato, a non cancellare del tutto l’impostazione che mi era stata data per sostituirla semplicemente con una nuova. Molti hanno visto in questo una fonte di ricchezza… la possibilità di non annullare un tipo di esperienza, ma di integrarla a nuovi stimoli, a nuove regole, a un nuovo modo di ballare insomma. È andata bene, alla fine!

Sei rimasto… e sei diventato Primo ballerino abbastanza in fretta!
Sì, esatto. Ogni anno, qui all’Opéra, si tiene un concorso; è a dicembre, e tutti i membri della compagnia possono prendervi parte per passare di grado… da quadrille a coryphée, poi sujet e infine premier danseur, Primo ballerino. La nomina a étoile, invece, non avviene per concorso: la decisione spetta alla direzione; è il riconoscimento di un lavoro eccellente, di una personalità particolare… che può arrivare anche come sorta di premio alla carriera; Wilfried Romoli, ad esempio, è diventato étoile a quarantadue anni. Molti criticano la presenza del concorso annuale per salire un gradino e passare di ruolo, preferendo il metodo adottato dalla maggior parte dei teatri nel mondo: lì è sempre la direzione a scegliere. Da noi questo avviene solo per la nomina ad étoile, in moltissime altre compagnie di danza invece per qualsiasi promozione, da solista a primo ballerino… Devo ammetterlo: il concorso crea molta tensione e una patina di competizione fra colleghi; il rapporto è sereno, può esserci amicizia… ma quando arriva il concorso, lo sanno tutti: qualcuno passa, qualcun altro resta indietro; è un po’ quello che il proverbio chiama mors tua, vita mea. E in genere tutti – o quasi – si iscrivono al concorso… tutti ci provano, ogni anno. Io stesso, che dopo la nomina a Primo ballerino non ho più concorsi da fare o da vincere, me ne accorgo ancora… si avvicina il concorso e l’atmosfera si fa più tesa, molti sono preoccupati… Ma non condanno assolutamente questo metodo. Te lo dico sinceramente. Rappresenta innanzitutto uno stimolo per tutti a migliorare e a crescere. E penso poi sia uno strumento più… democratico, se posso dirlo. La tua carriera non è sottoposta al gusto di una sola persona; in altri teatri, se non piaci al direttore in carica, è finita… rischi di perdere quattro, cinque, sei anni, e nella carriera di un ballerino non sono pochi. E puoi benissimo non piacere al direttore per questioni di gusto soggettivo, non perché tu non sia oggettivamente bravo; e se quella persona non ti dà fiducia (e non ti fa ballare) finisci per rimanere sacrificato per anni senza la possibilità di ballare e di crescere. Qui a Parigi, invece, c’è una giuria di circa dieci persone che ogni anno effettua la selezione al concorso; puoi per questo non essere particolarmente amato dal tuo direttore, ma passare comunque di ruolo ed essere apprezzato.

La tua professione porta spesso a rimanere in teatro parecchie ore ogni giorno… fino a nove o dieci. Il rapporto con i colleghi può diventare soffocante nella vita di compagnia?
Sicuramente… certo! Pensa a quando è inverno, ad esempio… esci di casa la mattina per venire in teatro ed è buio, la sera lasci il teatro ed è nuovamente buio. Non hai nemmeno visto il sole… In più qui a Parigi spesso il cielo è grigio, come a Londra, anche se piove di meno… ma non è un clima facile da sopportare d’inverno, soprattutto per chi è italiano ed è abituato a vedere più sole! Ci sono periodi davvero stressanti. Ma, sinceramente, qui all’Opéra tendiamo sempre ad incoraggiarci a vicenda. Anche se determinate persone non ti sono simpatiche… quando le vedi in difficoltà su un ruolo, o le vedi in un angolo da sole a farsi un pianto, hai un gesto amichevole per loro pur non essendo loro amico. A dispetto di quello che si può dire o sentire, la compagnia è comunque una grande famiglia: ci si vede tutti i giorni per tutto l’anno. Andare d’accordo diventa quasi una necessità; avere tensioni con determinate persone per incontrarle in corridoio e non salutarle rende l’atmosfera pesantissima, è un po’ compito di ognuno creare un ambiente positivo. Resta la competizione, non puoi eliminarla, è in qualche modo il motore che spinge tutti avanti; ma il rapporto coi colleghi deve restare piacevole. Se una stella brilla, del resto, non toglie necessariamente luca ad un’altra! Credo che nel lungo periodo non ci siano ingiustizie: se un ballerino è bravo, arriverà dove merita; non passare il concorso una volta non rappresenta la fine di una carriera. C’è sempre tempo, i ruoli sono tanti. In tutto questo può comunque esserci qualcuno che vive male la situazione. Può essere dovuto a molte ragioni: all’assenza di amicizie, di un equilibrio nella vita, di genitori che sostengano… Del resto, come dicevo prima, occorre essere forti per intraprendere una professione del genere. Ghislaine Thesmar, una maestra di ballo qui a Parigi, diceva “L'Opéra c'est une machine à broyer les faibles”… “L'Opéra è una macchina che distrugge i deboli ”: la pressione psicologica è molto forte, occorre la capacità di relativizzare le cose, di mettere un po’ di distanza fra te stessi e l’attività professionale.

A teatro sei uno spettatore severo?
I miei amici mi dicono che rappresento il pubblico facile. Non ho la critica spontanea. Quando vedo un ballerino molto bravo, ma con un lato negativo, non riesco a criticargli quell’unico aspetto che non apprezzo; quando un ballerino è mediocre, ma è generoso in scena, tendo ad apprezzarne appunto la generosità e l’entusiasmo… Non sarei assolutamente un buon critico di danza. Capita di vedere ballerini che non hanno un grande salto, ad esempio; ma se ce la mettono tutta, esco comunque contento da teatro… appartengo un po’ a quella fetta di pubblico quasi ignorante cui è sufficiente vedere della danza con qualcosa di ben fatto per essere contento.

Il tuo gusto è più vicino a ballerine dall’espressività quasi cinematografica come Sylvie Guillem o Maria Eichwald, o a interpreti che hanno ereditato uno stile teatrale tradizionale, quali Darcey Bussell, Aurélie Dupont…?
Bella domanda… Darcey Bussell e Aurélie Dupont sono ballerine bellissime. Con Aurélie ho ballato recentemente Rubies di Balanchine, da poco uscito in DVD, ed è stata una bellissima esperienza. Quando vedo ballare Sylvie Guillem trovo che resti sempre molto umana… si dice che è la donna Sylvie Guillem a fare la ballerina; e quando la vedo mi accorgo che è vero. Infatti per alcuni ruoli non vuole entrare in scena con le calze di danza… porta con sé caratteristiche che hanno modernizzato il teatro e il balletto. Mi piace questo lato moderno che Sylvie mette nelle sue interpretazioni… Ma amo anche il classicismo molto tradizionale che può avere Darcey Bussell; mi è piaciuta moltissimo quando l’ho vista ballare Manon.

Il passare degli anni e il pensiero del giorno in cui abbandonare la scena preoccupano un artista di danza?
Beh… possono farlo, senz’altro! A volte ci penso anch’io, per quanto quel giorno sia lontano. Dai buona parte della tua vita alla danza, al teatro. Lasciarlo non deve essere assolutamente semplice… soprattutto se sei un grande artista, hai vent’anni e oltre di carriera onoratissima, un pubblico affezionato. Capisco perfettamente quei danzatori o quelle danzatrici che non riescono a lasciare, a rinunciare al palcoscenico, a cinquant’anni e oltre…! Del resto ci sono moltissimi grandi artisti, ormai celebrità mondiali, che sono attorno ai quarant’anni e calcano ancora splendidamente le scene con maturità e consapevolezza superiore a quelle di un ventenne. Guarda Manuel Legris, étoile qui a Parigi: non si perde mai una classe, la segue sempre dall’inizio alla fine ed è fra gli ultimi ad andarsene. Il pubblico può essere severo, ma sa darti molto, e ci si abitua al rapporto con lui. All’Opéra abbiamo un grande pubblico di affezionati… non soltanto intenditori. È molto bello per un ballerino incontrare qualcuno, non solo sentirne gli applausi in scena. Capita spesso che alcune persone aspettino all’uscita artisti: fanno complimenti, ma li vedi anche molto pronti, interessati. Ti raccontano ad esempio di quando hanno seguito Nureyev, o degli interpreti diversi che hanno visto nel tuo stesso ruolo di quella sera… fa sempre piacere. Lasciare tutto questo spaventa, in definitiva. Anche per questo credo sia necessario crearsi una vita fuori dal teatro, estranea alla professione. E per farlo bisogna volerlo… uscire, conoscere persone nuove. Sembra banale, retorico… ma non lo è. Quando hai un giorno libero spesso hai sulle spalle la stanchezza del lavoro di una settimana intera, se non di più; l’istinto è quello di passare tutto il tempo in casa a dormire e riposare. Non va sempre bene: spesso diventa necessario sforzarsi di fare qualcosa di diverso, girare per musei, organizzare attività più varie. Il lavoro è importante, ma non può assorbirti sempre e in modo completo.



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Foto di scena: Icare (per gentile concessione dell’Opéra National de Paris).

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Intervista a cura di: Alessandro Bizzotto


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