Big Fish - Le storie di una vita incredibile
Il logo della Columbia scorre al contrario: dalla figura intera di Amelia Bachelor
l'inquadratura zooma stringendosi sulla luce bianca della celebre torcia. Il talento estroverso
di Tim Burton trova così espressione ancor prima che partano i titoli di testa, sovrimpressi a
fascinose immagini subacquee, inondate di una strana luce grigiastra, che provano a seguire il
grosso pesce del titolo; una metafora quantomai aperta.
Il gigantesco pesce è l'elemento ricorrente dei racconti di Edward Bloom, padre chiacchierone
che non perde la voglia di narrare le sue improbabili avventure dei tempi di gioventù nemmeno
quando è malato e costretto a letto. L'adorata moglie Sandra gli è sempre stata vicina,
ascoltando le sue incredibili storie con placida condiscendenza, supportandole con blande
conferme. Il figlio Will non ha parlato a Edward per anni, soffocato dalla sua inconsapevole
smania di protagonismo; ma davanti alla malattia paterna, tenta il passo della riconciliazione.
Sarà l'occasione per il fiorire di una nuova serie di narrazioni fantastiche, soprattutto per
chiedersi quanto la realtà possa superare la fantasia e quanto la vita possa essere aiutata
dall'immaginazione.
La metafora resta aperta, abbiamo detto. Con Big Fish, Tim Burton dimostra soprattutto di
saper fondere la sua vena creativa più fertile alla leggerezza del fantasy di maniera. Burton è
sempre l'autore della riuscita invasione aliena dai toni quasi satirici (Mars Attacks!,
1996), il creatore della splendida favola dark Nightmare Before Christmas. Eppure, quel logo
della Columbia presentato al contrario è una delle poche allusioni al Burton che conosciamo;
perché in Big Fish è meno presente rispetto alle sue opere precedenti. E' una firma, un
avviso: Tim Burton c'è, anche se si vede poco. La favola non è infatti accompagnata dall'usuale
spirito del regista di Edward mani di forbice. In particolare, il suo noto tocco gotico
- basti pensare a Il mistero di Sleepy Hollow - è qui pressochè assente; a fare eccezione,
l'episodio della strega dall'occhio di vetro, unica occasione per l'espressione del fascino cupo
con cui erano stati sfumati persino i primi due episodi di Batman.
La verità non è mai qualcosa di unico e certo, insegna la fiaba di Big Fish. Le
interpretazioni dei fatti mutano. E, alla fine, possiamo sempre essere chi vogliamo o diciamo di
essere. Lo stesso Edward finirà per identificarsi nel mitico pesce che, fra le altre cose, gli
ingoiò la fede nuziale.
Il rischio principale cui si espone il film è quello della narrazione episodica. Impostando
tutta la storia come serie di racconti in flash-back del vecchio Bloom, Burton accetta di
raffreddare l'emozione negli improbabili episodi. Automobili parcheggiate sugli alberi,
due gemelle siamesi orientali, rapine improvvisate e giganti ottusi suscitano un'attenzione
divertita più che una sentita partecipazione. Cosicchè uno dei due piani temporali (quello che
vede Edward Bloom immobilizzato dalla malattia) finisce per fare da collante e da cornice
all'altro, ponendo le due storie in un rapporto che le porta a spezzarsi reciprocamente e
meccanicamente. Questo perché non c'è un'evoluzione, nessun filo conduttore nelle avventure del
giovane Bloom, fatto salvo l'incontro con Sandra e l'amore fra i due.
Ma la storia-cornice è narrata con una leggerezza malinconica che fa da perfetto contraltare
alle sequenze del racconto, meno riflessive, ma pur sempre progettate con brillante inventiva.
Il livello del racconto che parte dalla fine (Bloom malato e anziano) dà completezza al piano
narrativo soprattutto in virtù della strana verosimiglianza dell'affetto che lega il protagonista
a Sandra, al contrasto fatto d'amore e odio con il figlio Will, a una fermezza poco fantastica,
ma sempre utile al racconto. L'immagine morbida che genera il carattere del ricordo è perfetta
per modellare le tinte burtoniane, anzichè fare a pugni con esse, accompagnandole a toni più
convenzionali (come un finale tanto conciliante).
Grande prova di Albert Finney nei panni dell'anziano Edward Bloom, ma soprattutto di Jessica
Lange (Sandra), la cui cristallina intensità dimostra come, ancora una volta, il talento emerga
anche in ruoli di supporto. Menzione speciale per Helena Bonham-Carter, qui in versione
d'eclettica campionessa di trasformismo: appare infatti sia nei panni della stega,
irriconoscibile sotto il trucco pesante, sia in quelli della bionda ed eterea Jenny cui Bloom
ricostruisce la casa in rovina; due personaggi che l'intuito dello spettatore può congiungere
soprattutto grazie a indizi di carattere scenografico.
Meno evidenti di quanto si pensi i riferimenti al cinema di Fellini, la cui ombra aleggia
soprattutto sull'ambientazione circense di alcune sequenze. Probabilmente, più che di sostanza,
si tratta di forma.
Alessandro Bizzotto
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