Matteo Merli Un’amichevole intervista. Sette Domande sulla Settima Arte al regista Matteo Merli

1- Matteo Merli regista e critico cinematografico. Ci parli della tua formazione? E di come è nata la tua passione per il cinema?

Il sottoscritto, nasce e dimora in un paese della provincia di Modena, da un passato storico importante e dal nome Mirandola, storica dimora dei Pico. La mia passione è scaturita in tenera età, tramutandosi in una ossessione onnivora con il tempo. Nel 1995 ho creato insieme ai miei amici appassionati della settima arte, il G.A.C.: gruppo anarchico cinematografico che ha all'attivo una quindicina d'opere alcune delle quali hanno partecipato a diversi festival del cortometraggio. Il 1997 per me è stato importante perché ho realizzato il primo corto in digitale, avvalendomi di un gruppo di tecnici audio e video che mi permettono di ambire a nuovi progetti realizzativi. Nei miei corti ho sperimentato diversi linguaggi e forme di riprese, perché la mia volontà è di esprimermi in qualsiasi campo che riguardi l'immagine. Secondariamente, collaboro al sito di Stradanove news da più di otto anni, seguendo la pagina di cinema, con recensioni, interviste e reportage dai festival di Torino, Locarno, Udine, Bergamo e Venezia; e da oltre sei anni scrivo per il sito Scanner, che insieme a Stradanove rappresenta i due siti italiani più importanti per quanto riguarda il mondo dei giovani. Ho da poco ultimato la sceneggiatura del mio primo lungometraggio, Il Paese Invisibile coadiuvato dallo sceneggiatore Davide Aicardi.

2 - Quali sono i film (e conseguentemente i registi) che hanno lasciato il segno nella tua infanzia ai quali ti ispiri e che ammiri maggiormente ora che sei diventato regista?

La mia influenza artistica attinge nella mia profonda curiosità di scoprire le nuove cinematografie orientali e nella riscoperta dei classici intramontabili. I miei studi da autodidatta mi hanno fatto scoprire le attinenze del linguaggio cinematografico e il merito di coglierne i particolari, riferendomi a maestri come: Kubrick, Murnau, Chaplin, Preminger, Wilder, Godard, Bunuel, riferendomi al passato; con il presente: Kim Ki-duk, Takashi Miike, Takeshi Kitano, David Gordon Green, Wong Kar-wai, Michael Haneke, Aleksandr Sokurov, David Lynch, David Cronenberg, solo per citarne alcuni. Le loro opere sono state dei riferimenti imprescindibile, per crescere autonomamente ed apprendere uno stile personale.

3 - Più dettagliatamente puoi descriverci alcune chiavi della tua influenza artistica? Se c’è, qual’è il tuo genere preferito?

La chiave si può ritrovare dalla prima visione di E.T. da bambino, e dalla mia immaginazione fuorviante che fin da giovane ha alimentato fogli di soggetti e idee. Diciamo che non ho avuto un padrino per avvicinarmi al cinema, ma solo una passione irrefrenabile che mi ha portato in contatto con amici appassionati di cinema come me. Da lì siamo partiti con una semplice videocamera e sbagliando abbiamo appreso i rudimenti del mestiere dalla base. Ovviamente ho perseverato e imparato sulla mia pelle, attraverso inevitabile errori, ma è stata una palestra di vita indispensabile per comprendere la parte tecnica. Il partecipare ai festival di cinema e confrontarmi con le altre persone mi ha consentito di migliorarmi ma soprattutto quello che non deve mancare ad un regista è una chiara ottica di come ottenere l’inquadratura e quale percorso stilistico si sta intraprendendo, per connotarsi dagli altri, cercando di inventare e non fermarsi alle convenzioni, perché la forma cinema deve rinnovarsi e trovare soprattutto in Italia una nuova linfa creativa. Per quanto riguarda le mie preferenze, quando penso di realizzare un mio progetto non adatto le mie idee ad un genere in particolare. Le mie sensazioni si basano unicamente sulle immagini che mi si affollano nella mente e da quel momento penso a strutturarne il soggetto. Ovviamente ho dei generi preferiti, come il thriller, l’horror o il mystery, non riscontrabile nel nostro cinema nazionalpopolare.

4 - Ho sempre dato importanza ai registi che sfruttano tutti i sensi a disposizione per seguire un film; da un certo uso della fotografia e dell’immagine fino a quello della musica per legare, sottolineare ed enfatizzare ciò che normalmente non avrebbe lo stesso “mojo”. Mi riferisco a John Carpenter, Michael Mann, Alan Rudolph, Cameron Crowe…cosa ne pensi di loro ed eventualmente vorresti aggiungerne altri magari citando qualche tuo collega italiano?

Il lavoro sull’immagine e sul suono da parte di registi come John Carpenter e Michael Mann è indiscutibile e i loro film ne sono l’esempio lampante; mentre Cameron Crowe come aspetto negativo, utilizza la musica in maniera invasiva, creando un citazionismo ipertrofico. La mia idea di coniugare questi due aspetti così importanti, è il raggiungimento visivo della stessa, intesa come espressione finale dell’atmosfera dell’opera che deve giungere allo spettatore. Registi come Mann, Carpenter, Lynch e Malick attraversano il guado del meccanicismo classico nel rapporto musica – immagine, per spingersi verso un coinvolgimento ipertestuale, trasportandoci dentro i loro temi autoriali e facendone assaporare lo stile inimitabile. In Italia un esempio positivo in questo esso si è visto in Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino, oppure in Angela di Roberta Torre o negli ultimi film di Bellocchio.

5 – Sei anche un critico. Che valenza dai all’audience e ai critici, credi che potresti cambiare modo di essere regista se qualcuno contestasse il tuo attuale modo di fare film? Scrivere di cinema può influenzare, aiutare o penalizzare, il lavoro di regia? Non si rischia di essere meno spontanei o di avere un occhio più "corrotto", viziato nei confronti del cinema?

Non penso minimamente a questa possibilità, visto che in passato ho ricevuto critiche e apprezzamenti, che mi sono servite per cresce professionalmente, e il mio stile se cambierà in futuro sarà solo per una risposta alle mie esigenze personali. D’altra pare non penso che essere critico possa corrompere la tua visione personale del cinema, a testimoniare il mio pensiero c’è la storia di registi come Godard, Chabrol, Rivette e Truffaut, capaci di convogliare la loro passione del cinema in una vera istanza di rivoluzione e ribaltamento del sistema industriale di allora. Si può lamentare del fatto che oggi alcuni critici passati alla regia si sono dimostrati pessimi realizzatori, con pellicole velleitarie o laccate da un conformismo d’autore scadente. Nel mio caso, dopo aver studiato attentamente e aver appreso il linguaggio del cinema la scelta di scrivere delle recensioni è stato istintiva. Logico sottolineare la prassi consolidati di non ritenere solo il cinema d’autore quello valido, ma di saper ragionare sui generi e le diverse contaminazioni di grado, solo così si può crescere dal punto dal punto di vista artistico, senza alcuna corruzione intellettiva fine a se stessa.

6 - Qual’è stato il momento più deprimente e soddisfacente della tua carriera e concludendo quali progetti futuri e quali le aspettative?

Più deprimente? non ho ricordi a riguardi, se non spiacevoli inconvenienti con alcune persone. Mi piace ricordare la difesa del pubblico alla proiezione del mio cortometraggio, Interruzioni d’amore al San Giò video festival, dopo una critica negativa in sala del critico, e questo mi ha dato fiducia per il proseguo della carriera. Prossimi progetti un lungometraggio in digitale a low budget e prima di questo l’inaugurazione del mio nuovo progetto produttivo attraverso il sito: www.arkadinpictures.com attualmente in via di definizione.

7 - Come regista, come ti definiresti?

Sono un regista che si affida al pensiero automatico delle proprie suggestione, sia a livello di scrittura che di ripresa, con un spirito vicino al cinema viscerale espresso negli anni sessanta. Il mio scopo successivo è trova una forma matura del mio cinema, ispirandomi all’opera di un maestro come Kubrick, autore di opere di genere contenenti al suo interno una struttura sperimentale pregna di suggestioni e stili differenti.

(Maggio 2006)

Intervista a cura di: Fabio Pirovano


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