
Il talento di Mr Cope
Intervista esclusiva a Jonathan Cope: la stella del Royal Ballet, fra gli artisti che più hanno segnato il teatro di danza nel mondo, si racconta a quelliche…il cinema
LONDRA – Ci sono voluti solo tre giorni per organizzare un incontro con Jonathan Cope. Una tempistica record, se si tiene conto dei vorticosi impegni e della schedule di ferro che stringono il Royal Ballet di Londra. Alla disponibilità immediata di uno dei suoi ètoile più celebri non c'è da farci l'abitudine.
So di dovere la facilità di questa intervista, mentre sono in volo verso Londra, non solo all'efficienza del press office del balletto reale britannico, ma anche all'infortunio che ha costretto ad un brusco arresto l'attività professionale di Jonathan, resettandone inopinatamente la schedule personale.
Cope non sembra aver avuto problemi a trovare un momento per incontrarmi. Quando arrivo a Londra, in un venerdì dal tempo variabile, ho ancora troppe domande in testa. Mica lo incontri tutti i giorni, uno dei tuoi artisti preferiti. Questo è forse un problema del mio approccio: sono innanzitutto un fan di Jonathan Cope. E la stordente rapidità di un appuntamento imprevisto non è il massimo per aiutare il self-control.
Non arrivo alla stage door di Floral Street esattamente disteso. Jonathan ha la fama di artista preciso e riservato; si sa che ha rifiutato più volte la visibilità mediatica, dicendo un sacco di no a chi lo voleva come testimonial pubblicitario. Uno con vent'anni di onoratissima carriera è capace di farti pelo e contropelo, se sbagli una domanda. Poco importerebbe, se non fosse che una cordialità sotto lo standard minimo lo riporterebbe fra i mortali, come si usa dire. Non è la prima volta che mi chiedo se non avesse ragione chi ha detto mai incontrare i propri miti.
Jonathan Cope è stato nominato Principal del Royal Ballet nel 1986. Hanno creato per lui i nomi più celebri fra i coreografi che sono già storia (Kenneth MacMillan) e fra quelli più noti del panorama contemporaneo (Christopher Wheeldon); dal repertorio al moderno, ha brillato come esempio di danseur noble praticamente in tutti i ruoli. Commander of the British Empire dal 2003, fra le dorature vanta il South Bank Show Dance Award (vinto nello stesso anno) e, ultimo in ordine di tempo, il premio come miglior danzatore dell’anno attribuitogli nel 2005 dal National Dance Awards Critics’ Circle.
Quando mi accompagnano sulla porta del piccolo studio in cui mi aspettano, Jonathan è seduto su un divano, si stira srotolando le lunghe braccia coperte da un largo maglione scuro, sorride alla responsabile dell'ufficio stampa, con cui confabula. Quando ci presentano si alza in piedi. Difficile immaginarselo così uno fra i danzatori che più ha lasciato il segno nel live theater mondiale, lo sguardo limpido e il fare non affettato.
Tensione? Quando ci sediamo Cope allunga le gambe pronto a rivelare una loquacità inattesa e una gentilezza familiare, mai costruita.
I miei propositi di non scoprirmi troppo sembrano solidi: evitiamo i ringraziamenti e i commenti del giovane fan, mi dico.
Innanzitutto lascia che ti ringrazi per la disponibilità: è un grande onore...
Oh no… Fa piacere anche a me.
Partiamo con qualche considerazione sul tuo repertorio: è incredibilmente vasto, hai ballato di tutto, da Schiaccianoci a creazioni contemporanee come Tryst. Qual è lo stile con cui ti trovi più a tuo agio?
La cosa bella di questa compagnia è che il suo repertorio è ampio e interessantissimo: abbiamo MacMillan e Ashton, che sono noti per essere due fra i migliori coreografi nel mondo… e credo lo siano davvero! Le mie preferenze personali sono vicinissime a MacMillan: è il coreografo che amo di più; è incredibilmente vero, vicino alla realtà. Era sempre attento alla recitazione, voleva un’interpretazione completa… la trasmissione di emozione non solo ballettistica…
… oltre la tecnica?
Beh… oltre la tecnica, sì, ma anche la mimica. A MacMillan non è mai piaciuta quella tipicamente ballettistica… hai presente? Io, tu, i gesti d’amore… lui voleva semplicemente una gamma completa di autentiche espressioni d’emozione. È un approccio che trovo estremamente gratificante perché si tratta di un modo molto più naturale di interpretare in scena. Ma amo moltissimo anche la musicalità di Ashton…
… wow! È fantastico, credo sia il mio preferito…
Davvero? Beh, il mio balletto preferito è di Ashton: A Month in the Country. Lo conosci, no?
Come no!? Ti ho visto ballarlo, l’anno scorso…
Ah, con Sylvie (Guillem, n.d.r.)…! È un balletto magnifico. Di nuovo, va oltre lo stile prettamente classico, ma non del tutto… ci sono épaulement, port de bras… Ashton ha fatto davvero un lavoro meraviglioso con quel balletto.
Qual è per te la differenza fra il lavoro su una coreografia creata su di te e una che invece esiste già e devi solo imparare?
Beh, io dico che se il coreografo è intelligente, se usa i ballerini e le loro risorse per creare il balletto… allora è fantastico, perché il lavoro si adatta alle tue caratteristiche, ti fa sentire a tuo agio… e tu sei in grado di dare qualcosa di te stesso. Credo sia ciò che MacMillan e Ashton hanno saputo fare molto bene. Ecco perché penso che i cast migliori dei loro balletti siano stati quelli originali: le qualità peculiari dei danzatori sono state inserite nel balletto. Per farti un esempio, Manon con Anthony (Dowell, n.d.r.) e Jennifer Penney, o Mayerling con David Wall e Lynn Seymour… tutti questi lavori sono stati fatti con loro, sono loro da un certo punto di vista… capisci? Li hanno creati loro. Ma è interessante entrare in una parte come quelle… se conosci il danzatore su cui è stato creato il ruolo che interpreti e puoi confrontarti con lui, come a me è capitato quando ho interpretato per la prima volta un personaggio creato per Anthony o per David… è stato abbastanza semplice, come ballerino mi sono sentito in parte…
… coi passi?
Sì, con i passi della coreografia.
Altri nomi fra i coreografi che ami?
Oh, un piccolo cruccio come ballerino è non aver creato un ruolo con Mats Ek… Ho interpretato Escamillo nella sua Carmen, quando Sylvie l’ha ballata con Massimo Murru, e quella è stata la prima volta che abbiamo visto un suo lavoro qui alla Royal Opera House. È stata una grande esperienza per tutti i danzatori coinvolti, e da allora ho sempre sperato di lavorare con lui per essere coinvolto in qualche sua nuova creazione…
Ti piace il suo stile?
Sì… sono aperto a tutto. Ma penso che la cosa bella sia lavorare con lui: è un uomo molto carismatico, durante il lavoro senti davvero il desiderio di assecondarlo… non capita con tutti i coreografi.
Pensi ci sia davvero una differenza fra l’English style della tua compagnia e il metodo di lavoro in altri teatri europei?
Ottima domanda… Credo che tutte le compagnie abbiano uno stile proprio, particolare, basato sulla loro storia e sul percorso che hanno compiuto. Penso che lo stile che contraddistingue il Royal Ballet si sia evoluto con i coreografi che si sono succeduti, fra cui quelli di cui abbiamo parlato, come Ashton e MacMillan. Ma se dovessi rispondere chiaramente ad una domanda su qual è lo stile del Royal Ballet, direi Sibley e Dowell. Se dovessi scegliere un top… beh, sarebbero loro! Un modo di danzare puro, pulito… naturale, molto musicale… elegante. Possono rappresentare un po’ il cosiddetto English style…
… anche nella visione totale dell’interpretazione?
Esatto, assolutamente. L’interezza della performance… non solo i passi. È importantissimo: raccontare una storia. Ogni balletto, di uno, due o più atti, racconta una storia. Torniamo allo stile di MacMillan: a noi riesce molto bene; dietro a ogni movimento c’è uno scopo, non è mai semplicemente danza, è vero teatro. È anche per questo che gli artisti stranieri che vengono al Royal Ballet adorano danzare MacMillan… è sempre uno dei coreografi più amati nel mondo.
Non posso non farti una domanda sulle tue partnership, e in modo particolare su quella con Sylvie Guillem…
Certo… Sylvie è great. Potrei dirti così tante cose…
Com’è stato incontrare questa étoile nata all’Opéra di Parigi?
Oh, ero piuttosto spaventato… ci è voluto del tempo prima che mi sentissi a mio agio con lei. Ero un po’ in soggezione a volte… era questa ballerina francese, con questa tecnica… solo guardare cosa faceva e come lo faceva non mi faceva sentire all’altezza di affiancarla…
… ma dai…! Tu?
È vero, onestamente. Poi è arrivata la confidenza, e ho potuto in qualche modo imparare da lei ed essere ispirato da lei…
… beh, la cosa sarà stata reciproca per quest’ultimo aspetto…
Ballare insieme ha aiutato entrambi. Ma all’inizio ero piuttosto inibito…! Non è stato immediato superare questa sensazione. Ricordo ancora la prima volta che sono entrato in sala per provare con lei… a Parigi, ero lì per ballare il Grand Pas Classique.
Arrivare, entrare in queste sale fantastiche… temere le critiche… è stato terrificante! Negli anni successivi le cose sono ovviamente migliorate. Sylvie ha sempre avuto qualcosa di speciale… adoro il modo in cui tenta di raggiungere quella sorta di realistica naturalezza in ogni produzione cui prende parte, allontanandosi da ogni tipo di stereotipo del balletto. È anche aperta da sempre a sperimentare, a lavorare con coreografi nuovi. È davvero un’artista eccellente. Dal punto di vista fisico siamo sempre stati adattissimi a ballare insieme: sono sempre riuscito ad anticipare ciò che lei stava per fare… la sua musicalità ha agevolato molto la nostra partnership…
E Darcey Bussell?
Il lavoro che ho fatto con Darcey è stato prettamente sul repertorio classico… Schiaccianoci e balletti simili. Con lei non ho mai affrontato niente di corposo dal punto di vista interpretativo…
… non avete mai ballato Manon, ad esempio, vero?
No mai, infatti. La nostra partnership è stata strettamente basata sul repertorio classico… pur con qualche intrusione in quello moderno, come Tryst di Christopher Wheeldon, di cui parlavamo. C’è stato Cenerentola, per citare un altro lavoro di Ashton…
… Sylvia…
Certo, anche Sylvia… ma come vedi niente di estremamente forte, drammatico… quel genere di ruoli li ho sempre affrontati con Sylvie… anche con Tamara Rojo negli ultimi anni; con lei ho ballato Mayerling e Songs of the Earth…
Mi dici due parole proprio su Sylvia di Ashton? È una meraviglia…
Oh, è un balletto favoloso…!
Ha rappresentato un debutto, un ruolo completamente nuovo per un Principal già affermato e celebre… che esperienza è stata? Fra le altre cose sembra difficilissimo, almeno per chi lo guarda…
Sì, è abbastanza difficile. All’inizio, quando abbiamo iniziato a prepararlo, ero piuttosto nervoso, perché pensavo avesse troppi anni… che fosse troppo retro insomma, e che potesse per questo apparire datato. Soprattutto perché non avevamo cambiato niente: ovviamente non la coreografia, ma nemmeno l’allestimento scenico e i costumi. Era tutto com’era la prima volta che è andato in scena. Per questo ero preoccupato che il suo look potesse apparire un po’ old fashion. Ma una volta andato in scena, ho potuto vederlo eseguito da altri cast, e mi è piaciuto davvero molto: ha qualcosa di magico; il terzo atto mi ha praticamente catturato, è bellissimo! Vederlo mi ha dato nuovo entusiasmo per le recite in cui l’ho ballato, ho messo da parte il nervosismo e la tensione per farlo apparire bello… e ho adorato Sylvia. Soprattutto il pas de deux del terzo atto: lo sentivo in maniera straordinaria, quella musica… è un pezzo magnifico. So che l’hanno eseguito anche in America; penso sia stato un successo anche lì. Mi trovo a chiedermi con grande meraviglia perché non l’abbiamo mai eseguito qui alla Royal Opera House dai tempi in cui fu creato: è un classico di Ashton, un suo pezzo importantissimo… avrebbe riscosso sempre e con facilità lo stesso successo di un balletto come La bella addormentata. Sotto un certo punto di vista posso dirti di preferire Sylvia alla Bella Addormentata…
Sono d’accordo con te…
È una grande creazione. Mi piace davvero tanto.
Per il pubblico è importante poter scegliere gli artisti e i cast di un balletto?
Beh, ovviamente…
Ne parlo spesso ultimamente perché all’Opéra di Parigi ormai non li pubblicano quasi più in anticipo… è un problema sapere chi vai a vedere…
Davvero? Penso sia orribile… e che sia anche una questione di vendita dei biglietti. Davvero… può essere anche questo. Se hai un super ospite devi pagarlo di più, o comunque devi dare un salario da guest ad un artista che viene da fuori… se ad esempio Sylvie torna a Parigi come guest, lei deve essere pagata per quelle date, ed è un pagamento extra per il teatro… è normale che questo speri di registrare un tutto esaurito. Ma altre recite potrebbero non registrare il tutto esaurito per le ragioni più diverse… se non ci sono nomi annunciati per quelle recite, le cose cambiano… Trovo sia un’idea stupida, ti rende anche difficile vedere più recite con ballerini diversi. No, non credo funzionerà, personalmente la trovo una pessima idea.
Qual è il tuo rapporto con il pubblico… o i fan?
Il pubblico fa lo spettacolo. Ho sempre pensato che una grande performance sia tutto ciò che la compone: chi danza, chi dirige l’orchestra, l’intero corpo di ballo, le luci, l’allestimento, e ovviamente il pubblico. Quando tutti questi elementi s’incontrano, il risultato è magico. Qualcosa può andare storto… e quel qualcosa può includere il pubblico, se è fiacco o distratto. Credo che il pubblico sia una componente importantissima per l’arte teatrale.
Vai a teatro da spettatore?
Sì, spesso.
Anche qui alla Royal Opera House?
Vedo praticamente sempre le recite qui… tre o quattro volte la settimana. Ma amo anche andare a teatro altrove, vedere altre produzioni… Non c’è niente come il teatro, è incredibile… E ho sempre grande rispetto per il pubblico; qui a Londra in modo particolare: è fantastico, molto solidale, un grande supporto. Abbiamo avuto belle esperienze anche con il pubblico americano e con quello giapponese.
Jonathan Cope: il Principal e l’uomo… insomma essere artista di successo e avere una vita privata con una famiglia, dei figli…
Decisamente duro. I danzatori sono… o devono essere un po’ egoisti. Egoisti in merito al lavoro, alla propria condizione fisica… se hai spettacolo devi trascorrere una nottata di sonno tranquillo, devi mangiare il cibo giusto… durante le tue giornate sei costantemente concentrato su te stesso. Non solo dal punto di vista fisico, anche da quello mentale, con tutto il lavoro di preparazione. È un po’ egoistico in questo senso… Non è semplice avere poi una famiglia, come nel mio caso. Non puoi mai startene con le mani in mano quando hai dei figli, una moglie, altre responsabilità. Sa essere una fatica quotidiana, insomma… e quando torno a casa, la sera, cerco da sempre di spegnere l’interruttore della concentrazione sul Principal e focalizzarmi sull’uomo. E ora che mi sono fermato, dopo il recente infortunio, ho avuto modo di accorgermi di come sia positivo, da un lato… quando sono a casa ho modo di concentrarmi completamente sulla mia famiglia e sulla mia vita. Quando hai spettacolo, invece, pensi sempre ad allenarti, andare in palestra, provare, andare a dormire, o a qualche altra cosa. Pensi allo spettacolo, insomma, alla sua buona riuscita… Ma a me piace anche avere momenti in cui mi dedico alla famiglia e sto con i miei figli.
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Immagini per gentile concessione della Royal Opera House, Covent Garden, Londra, e di ArenaPAL.
Dall'alto: Jonathan Cope in un ritratto; in Apollo di George Balanchine (Bill Cooper); in Song of the Earth di MacMillan; con Sylvie Guillem in A Month in the Country di Ashton (Bill Cooper); in Sylvia di Ashton (Bill Cooper).
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Intervista a cura di: Alessandro Bizzotto
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